La Squadra mobile lo ha incastrato col trucchetto delle lettere anonime. E così dopo 32 anni si è arrivati a una nuova svolta sull’omicidio di Bruno Caccia, procuratore capo di Torino ucciso nel 1983. L’unico giudice assassinato dalla ‘ndrangheta nel nord Italia. Uno dei presunti killer è stato arrestato: Rocco Schirripa, detto “Barca”, 62 anni, che lavora come panettiere in piazza Campanella, nel popolare quartiere Parella di Torino. Il nome di questo ‘ndranghetista di livello era già emerso ma non era mai stato indagato. Sarà interrogato mercoledì 23 dicembre nel carcere San Vittore. La nuova inchiesta, che riprende un vecchio filone, è stata aperta della procura di Milano anche grazie ai tre esposti presentati dalla famiglia Caccia negli ultimi tre anni. Le indagini sono state coordinate dal numero uno della Dda Ilda Boccassini e condotte dal pm Marcello Tatangelo. L’arresto di oggi però non mette la parola fine a uno dei delitti più oscuri della storia criminale italiana. Le indagini continueranno, ma la procura non ha dubbi sul fatto che si trattò solo di ‘ndrangheta. I magistrati milanesi bocciando così la ricostruzione “parallela” dell’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici, secondo cui il delitto maturò nella zona grigia attorno ai casinò del nord Italia su cui Caccia aveva puntato gli occhi. Un intreccio di interessi tra ‘ndrangheta, colletti bianchi e apparati deviati. Repici è comunque soddisfatto: “L’arresto dimostra che avevamo ragione a sostenere che esiste un intollerabile buco nero”. “Spero che questa svolta sia un punto di partenza per un nuovo filone di indagini. Questo caso è stato sempre un po’ trascurato” dice a Radio 24 Paola Caccia, figlia del magistrato.
“Schirripa ha dato il colpo di grazia”
Il procuratore capo venne ucciso alle 23 del 26 giugno ’83 in via Sommacampagna. Era a passeggio con il cane. Senza scorta, lasciata a riposo visto che era domenica. I due killer arrivarono a bordo di una 128 e lo uccisero con 14 colpi di pistola. I magistrati della Dda milanese hanno ricostruito che fu Schirripa a dare il “colpo di grazia“. Domenico Belfiore, arrestato e condannato all’ergastolo nel ’93 come mandante e dallo scorso 15 giugno ai domiciliari per motivi di salute, e il suo “soldato”, aspettarono il magistrato appostati vicino alla sua casa. Belfiore, uno dei capi della ‘ndrangheta in Piemonte, avrebbe sparato a Caccia dalla vettura, ferendolo. A quel punto Schirripa sarebbe sceso dall’auto, per finirlo con un colpo alla testa.
Presunto killer incastrato con lettere anonime
Dopo 32 anni gli investigatori sono arrivati a stringergli le manette grazie a un semplice trucco definito “geniale” dalla Boccassini. Una “scommessa investigativa” per il procuratore di Milano facente funzione, Pietro Forno. Un escamotage quasi da “agente provocatore” che gli uomini guidati da Marco Martino hanno potuto mettere a segno solo dopo che Belfiore è uscito dal carcere a giugno. A settembre i poliziotti inviano a lui, a suo cognato Placido Barresi (che fu assolto dall’accusa) e ad altre persone lettere anonime con l’articolo del quotidiano La Stampa sull’arresto di Belfiore, con dietro scritta la frase “Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette (il carcere di Torino ndr) Esecutori: Domenico Belfiore Rocco Barca Schirripa Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfior”. Un modo per la Dda di sondare le reazioni di uno dei sospetti. Reazioni che non si fanno attendere. Subito, infatti, inizia un giro di telefonate tra Belfiore, Barresi e lo stesso Schirripa mentre gli agenti ascoltano tutto in diretta. “Io non ne ho parlato più con nessuno”, giura il presunto killer che ammette di “dormire male”. Per questo inizia a pianificare la fuga: “Io vedo di cercare una sistemazione, almeno posso andare a dormire tranquillo”. Forse in Spagna, dove secondo il gip gode di ottime coperture.
Telefoni intercettati con virus
Le frasi che secondo i magistrati inchiodano Schirripa sono state captate grazie a un virus, che permette di attivare a distanza i microfoni degli smartphone intercettati, trasformandoli così in registratori. In questo modo si possono catturare, immagazzinare e trasmettere conversazioni anche all’aria aperta, in luoghi, come il balcone di casa, ritenuti al riparo dalle microspie.
Familiari: “Dietro l’omicidio rete criminale dei casinò”
Ancora oggi però uno dei punti più oscuri rimane il movente. Secondo l’indagine dell’avvocato Repici, quando venne ucciso Caccia stava lavorando sull’infiltrazione della malavita organizzata nei casinò del nord Italia, utilizzati come “lavanderie” dei soldi provenienti dai sequestri di persona. Ed è proprio da qui che bisogna ripartire per capire quei 14 spari. Negli ultimi tre anni Repici ha rafforzato la convinzione che dietro l’omicidio ci sia stata “un’unica e più ampia rete criminale che aveva pressoché fagocitato la gestione dei Casinò del nord Italia e della Costa Azzurra, sotto il controllo di esponenti delle mafie catanesi, palermitane, calabresi, corse e marsigliesi”. Sempre secondo il legale, nel delitto sarebbero stati coinvolti anche apparati dei servizi deviati che avrebbero mescolato le carte in tavola per non arrivare ai veri mandanti e al vero movente.
La falsa pista del terrorismo
Ipotesi, finora. Di certo si intuì fin da subito che c’era qualcosa di anomalo. Siamo all’inizio degli anni ’80. Il terrorismo politico è sotto attacco ma non smette di uccidere. E siamo a Torino, una delle città che ha versato più sangue durante gli anni di piombo. Subito dopo l’omicidio arrivano le rivendicazioni delle Brigate Rosse, Prima Linea e Nar. Ma sono false. O forse, addirittura, tentativi di depistaggio. La lente viene puntata allora sulla malavita organizzata. Ci sono voluti cinque gradi di giudizio per arrivare alla condanna del mandante Belfiore. Ancora oggi la versione ufficiale dice che il mammasantissima voleva sbarazzarsi del giudice perché lo riteneva troppo “duro”. Con la sua morte sperava che a guidare la procura arrivasse un magistrato più “morbido”. Una spiegazione che non ha mai convinto la famiglia. Anche perché il principale accusatore del boss e “fonte di prova” che porta alla sua condanna definitiva è una figura ambigua: il collaboratore di giustizia Francesco Miano, a cui – come è stato accertato – il Sisde fornì un registratore per cercare di raccogliere informazioni in carcere. Ma per l’avvocato Repici questo non è l’unico punto oscuro nell’indagine condotta dal pm antimafia Francesco Di Maggio (il cui nome ritorna nell’inchiesta sulla trattaiva Stato-mafia).
Legale famiglia: “Boss Cattafi possibile mandante”
Per i familiari l’inchiesta non approfondì abbastanza la pista che portava al Casinò di Saint Vincent, individuato dalla procura guidata da Caccia come una delle basi per il riciclaggio. Nonostante che sei mesi prima di quei 14 spari, il Pretore di Aosta Giovanni Selis, anche lui impegnato in indagini sul casinò, fu vittima di un attentato dinamitardo dal quale si salvò. E sempre secondo Repici non venne preso in considerazione il ruolo di Rosario Pio Cattafi, boss siciliano e avvocato indicato dai pentiti come anello di congiunzione tra Cosa nostra, servizi segreti ed estrema destra, oggi al 41 bis a l’Aquila e teste nel processo trattativa. Secondo il legale, uno dei mandanti potrebbe essere proprio l’eminenza grigia di Cosa nostra, emissario negli anni Settanta del boss catanese Nitto Santapaola a Milano. Nella sua casa venne trovato addirittura il falso volantino di rivendicazione delle Brigate Rosse. Per il legale, nuovi spunti investigativi sono arrivati anche da Carlo Calvi, figlio di Roberto, che nel corso degli accertamenti sulla morte del padre, avrebbe raccolto prove sul “controllo esercitato dalla loggia P2 sul casinò Ruhl, diretto, in quel quadro, da Jean Dominique Fratoni” e sulla frequentazione di quel casinò da parte di “personaggi calabresi coinvolti nel sequestro Mazzotti”.
Pm: “Nessuna prova su coinvolgimento dei servizi”
Una versione quella di Repici che però la procura di Milano non condivide. Per il pm Tatangelo “la prospettata ricostruzione ‘alternativa’ dell’omicidio Caccia si ritiene esser priva della benché minima consistenza probatoria”. Versione ‘alternativa’ secondo cui, scrive il pm, oltre alle cosche avrebbero partecipato al delitto “esponenti deviati dei servizi segreti dell’epoca con l’ulteriore complicità del dottor Francesco Di Maggio, all’epoca dei fatti il pm a Milano titolare delle indagini sull’omicidio Caccia che avrebbe abusato delle sue funzioni per deviare le indagini dal vero responsabile”. Nessun dubbio anche per il gip Stefania Pepe: “E’ stato senza alcun dubbio commesso dalla criminalità organizzata, un omicidio di matrice mafiosa, deciso da quella che negli anni ’80 era la più importante cosca di ‘ndrangheta operante nel torinese”.
Boccassini: “Sono emozionata, avanti con indagini”
Tesi ribadita dalla Boccassini. “Le indagini hanno confermato che i calabresi sono stati mandanti ed esecutori materiali di un omicidio di mafia di questa portata”, commenta il capo della Dda, che si dice “emozionata” per questa svolta. Le indagini però vanno avanti. “Stiamo verificando se l’omicidio sia stato voluto dalla famiglia Belfiore con il beneplacito dell’organizzazione in Calabria”.