Primavera 2015: Matteo Renzi ha un problema a Milano. Il sindaco Pisapia ha annunciato di non volersi ricandidare, Expo nei primi tre mesi ha ingressi da flop, il dopo-Expo è un buco nero senza progetti. La questione-Milano si presenta al presidente del Consiglio come un gomitolo aggrovigliato da molti nodi. Soprattutto la sorte delle aree dopo l’esposizione gli pare lontana dalla soluzione: nessun operatore privato ha risposto al bando del novembre 2014 che le metteva in vendita per 314 milioni. Un gruppo di persone aveva però cominciato a riunirsi e a pensare una via d’uscita. Non politici, ma uomini d’affari. Francesco Micheli, finanziere milanese di lungo corso, da tempo si interessa di ricerca sul genoma. Ha creato Genextra, fondo specializzato in biofarmaceutica, e non senza soddisfazioni: quando la controllata Intercept Pharmaceuticals ha brevettato la molecola Int 747, in pochi giorni ha aumentato il suo valore a Wall Street da 1,4 a 8,8 miliardi di dollari.
Perché non fare dell’area Expo un polo di ricerca? Micheli trova un interlocutore sensibile in Pier Giuseppe Pelicci, il direttore del Dipartimento di oncologia sperimentale dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi. Ne parla con Marco Carrai, il finanziere più vicino a Renzi, che fa da ponte con il presidente del Consiglio. Comincia così a delinearsi una soluzione al problema-Milano: il dopo-Expo sarà un polo scientifico, mentre il dopo-Pisapia prende la faccia di Giuseppe Sala, il commissario che potrebbe continuare a occuparsi dell’affare passando da Expo spa a Palazzo Marino.
La regia dell’operazione è affidata a Roberto Cingolani, eterno direttore dell’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia di Genova. Coinvolto anche Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e fondatore dell’Istituto Clinico Humanitas, che fa cura ma anche ricerca. Così nasce l’idea (Human Technopole Italy 2040) che Renzi presenta con alti squilli di tromba a Milano il 9 novembre 2015, insieme alla promessa di finanziare l’Iit con 150 milioni l’anno per dieci anni. Il primo risultato che ottiene è quello d’attirarsi gli strali di tutto il mondo scientifico e universitario (milanese e lombardo), che si chiede perché mai il regista dell’operazione deve arrivare da Genova. La risposta è semplice: l’Iit è unico, è l’istituto più finanziato e più controllato dal governo. Ecco come. Nasce nel 2003 come centro di ricerca molto privilegiato. In un Paese in cui all’intero sistema universitario per la ricerca sono destinati soltanto 91 milioni di euro, al solo Iit vengono dati 50 milioni per l’anno 2004 e 100 milioni all’anno dal 2005 al 2014, più tutti i beni della fondazione Iri (poco meno di 130 milioni): oltre 1 miliardo di euro in 11 anni.
Ebbene, di questa cifra, quasi la metà non è stata spesa. Lo si deduce non dai bilanci, che alla faccia della trasparenza non sono pubblicati, ma da una relazione della Corte dei conti del 31 dicembre 2013, che ci informa di 430 milioni di fondi non spesi, messi sotto la voce “disponibilità liquide” e “per la maggior quota detenute nel conto corrente infruttifero aperto presso la Tesoreria Centrale dello Stato”, mentre una quota minore (circa 21 milioni nel 2013) è depositata nelle casse di alcune banche private. Non sappiamo quali, né come sono state scelte, né quali condizioni offrano. Comunque uno spreco, protestano gli altri centri di ricerca e le università, che si sono visti tagliare i fondi pubblici da ogni nuovo governo. L’Iit no: accumula negli anni tanti soldi da non sapere neppure come spenderli. Particolare anche la governance. Iit, con i suoi mille ricercatori, è un soggetto di diritto privato finanziato con denaro pubblico, i cui vertici, di nomina politica, non sono soggetti a valutazione e sono inamovibili. Secondo la Corte dei conti, però, “nonostante sia soggetto di diritto privato, anche alla luce della costante giurisprudenza della Corte dell’Unione europea, è da inquadrare tra gli organismi di diritto pubblico”.
Direttore scientifico è Roberto Cingolani, in carica da 12 anni. Presidente è Gabriele Galateri di Genola, presidente anche delle Generali, succeduto a Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro ed ex ministro dell’Economia, nonché presidente del Corporate & Investment Bank Europa-Medio Oriente-Africa di JPMorgan, che è tuttora chairman del Consiglio di Iit. I criteri di selezione dei vertici, scientifici e manageriali, sono del tutto sconosciuti e completamente discrezionali. Poco trasparente la gestione. Incerti i risultati scientifici ottenuti: ottimi per l’ufficio stampa di Iit, mediocri per il sito specializzato Roars (Return on academic research), secondo cui il rapporto tra i soldi spesi e il numero di pubblicazioni scientifiche è il più basso tra quelli dei principali enti di ricerca italiani.
“Perché lì e soltanto lì si vanno a investire montagne di fondi”, si chiede Marco Cattaneo, direttore di Le Scienze, “mentre invece l’Università, il Cnr, l’Enea e tutti gli altri enti di ricerca sono al soffocamento? Perché l’Iit non deve sottostare alle regole di trasparenza e di valutazione che si brandiscono come mannaie all’indirizzo di tutti gli altri?”. Domande che si pose, nel 2007, anche l’allora ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, che affidò una valutazione di Iit a una commissione indipendente internazionale. Ne uscì un giudizio “molto positivo”, garantisce Cingolani. Ma il rapporto è misteriosamente scomparso e non sono riusciti a farlo riemergere dalle nebbie né l’interrogazione parlamentare del 2010 di Giovanni Bachelet, né quella recentissima di Stefano Fassina.
Da Il Fatto Quotidiano del 3 gennaio 2016