Un comico a dirigere la più grande tragedia finanziaria dal secondo dopoguerra. I paradossi d’altra parte hanno fatto la Storia, e poco dobbiamo stupirci se Adam McKay, il braccio destro di Will Ferrell, si sia messo alla regia (e coscrittura) de La Grande Scommessa, in originale The Big Short, cine-oggetto macabro sulla vigilia della crisi finanziaria americana (cioè mondiale) tra il 2007 e il 2008.
La vena ironica che invade forma e contenuto, e che parte da uno sguardo assai acuto, distingue questo importante film – candidato a ben quattro massimi Golden Globes – dalle opere simili per tema come gli stranoti Wall Street (1987) e il suo sequel Wall Street – Il denaro non dorme mai (2010) entrambi di Oliver Stone, il rigoroso Margin Call (2011) di J. C. Chandor fino al sublime The Wolf of Wall Street (2013) di Scorsese e al pertinente 99 Homes (2014) di Ramin Bahrani. Per quanto basato su fatti realmente accaduti e ispirato al bestseller omonimo del giornalista finanziario Michael Lewis, il film sembra orientato a compiere esattamente il contrario di quanto si attenda da un testo sul mondo della finanza, cioè spiegare i motivi di quella bolla che fece crollare il valore dei rendimenti finanziari del mercato immobiliare americano sostanzialmente derivato dai mutui subprime.
The Big Short – che letteralmente si traduce con la grande vendita allo scoperto – compie il non facile miracolo narrativo di farci capire che certi meccanismi finanziari sono per certi aspetti “inspiegabili” e non lo fa agendo sulla ragione bensì assumendo il punto di vista dello spettatore che gode e/o s’incazza nel non comprendere. L’apparente “caos” identifica l’ordine disfunzionale con cui alcuni draghi della finanza mondiale che – in luoghi e modi diversi – intuiscono e profetizzano il sicuro default del mercato immobiliare, quello su cui nessuno fino al 2005 nutriva il minimo dubbio di rischio. Detto fatto: dall’apparentemente folle ex neurologo convertito alla finanza Michael Burry (un esemplare, come sempre, Christan Bale) al insider trading cool della Deutsche Bank Jared Vennett (Ryan Gosling), da Mark Baum (uno splendido Steve Carell) manager “etico” di un’affiliata alla Morgan Stanley a un ex guru di Wall Street ora in pensione, Ben Rickert (Brad Pitt), che fa da mentore a due giovani “genietti” della scienza più avida mai concepita.
Tutti, autonomamente e per vie diverse, arrivano al medesimo risultato: i mutui che costituiscono i pacchetti finanziari proposti dalle fiduciarie non sono standardizzati e sono dunque destinati a fallire in breve tempo. Il primo ad arrivarci e a “farci la cresta” è proprio Burry che s’inventa i “credit default swap”, ovvero una forma di investimento che guadagna dal fallimento di tali mutui. Tralasciando dettagli tecnici, il punto centrale è di squisito ordine filosofico ed etico: mettere in discussione le certezze occidentali dimostrando che possono crollare…facendole concretamente crollare con un’invenzione senza contenuto, una bolla, appunto. Tale collasso finanziario noto alla Storia portò sul lastrico milioni di americani, una vera apocalisse esistenziale su cui il film punta il dito ma con un tono di assoluta intelligenza generato dall’uso sapiente, ibridato e originale del dispositivo cinematografico. Da gustare prestandovi la massima attenzione.