Guardate questo breve scambio su Twitter:
Paolo Cirino Pomicino sostiene che l’entrata nell’euro non fu di per sé un errore: l’errore fu entrarci al cambio sbagliato. Alla richiesta di precisare quale sarebbe stato quello giusto, precisa: “poco più della metà”. Insomma, il cambio corretto, secondo Cirino Pomicino, sarebbe stato di circa 1000 lire per euro (la conversazione, se interessa, è qui).
Qualcuno penserà: “Chiacchiere del sabato sera!”, e tirerà dritto. Sbaglierebbe. Quello che vi ho appena mostrato è in effetti un documento storico sconvolgente, e, se vorrete seguirmi, proverò a spiegarvi perché.
Intanto, rivolgo il mio pensiero ai più giovani, quelli che magari sono “euronativi” (nel senso che non hanno mai usato altra moneta che l’euro). Loro, legittimamente, possono ignorare chi sia Paolo Cirino Pomicino. Nato nel 1939, laureato in Medicina e chirurgia, era ministro del Bilancio e della programmazione economica quando, il 7 febbraio del 1992, venne firmato il Trattato di Maastricht. È stato quindi un politico influente: un medico titolare di un ministero economico all’epoca in cui l’Italia prese quella che ormai tutti riconoscono come una decisione quanto meno avventata, l’ingresso nella moneta unica. Preciso che il Trattato non lo firmò lui. Lo firmarono due suoi colleghi: Carli (Tesoro) e De Michelis (Affari esteri), per l’allora presidente della Repubblica italiana(Scalfaro).
E ora, rivolgo il mio pensiero ai meno giovani (cui appartengo), quelli che queste cose le ricordano, e che spesso sento svolgere “ragionamenti” analoghi a quelli di Cirino Pomicino: “Eh, ma il cambio era sbagliato! Eh, ma saremmo dovuti entrare a 1000 lire per euro! Eh, ma entrando a quasi 2000 i prezzi sono raddoppiati, e questo ci ha rovinato!”, ecc.
Vorrei sommessamente far osservare che purtroppo questi sono ragionamenti da bar, e per chiarirlo, ahimè, è necessario fare un piccolo sforzo: quello di ricordarsi come funzionava il Sistema monetario europeo (SME) prima dell’entrata nell’euro. Credo che lo sforzo valga la pena di farlo, perché permette di capire una volta per tutte due cose non banali:
1. che il cambio a 1936,27 lire per un euro non saltò fuori dal nulla e
2. che cosa sarebbe successo se avessimo dato retta a Cirino Pomicino entrando a 1000 lire per euro.
Vi ricordo che i paesi aderenti allo SME (fra cui noi) definivano il tasso cambio della propria valuta in termini di ECU (European Currency Unit). L’ECU era quindi una unità di conto (appunto, l’unità di conto europea), cioè una moneta scritturale. La storia è piena di valute simili, valute non coniate, ma usate per far di conto: era una unità di conto lo scudo di conto nella Roma papalina, lo è oggi il Diritto speciale di prelievo del Fondo Monetario Internazionale. Quali conti servisse a fare l’ECU ve l’ho appena detto: serviva a determinare il valore delle rispettive valute europee. Ad esempio: nel 1992 con un ECU si compravano 1587,48 lire, oppure 2,02 marchi tedeschi (per citare due valute appartenenti al sistema), dal che consegue che occorrevano 1587,48/2,02= 785,88 lire per un marco tedesco. Insomma, l’ECU non era materialmente possibile metterselo in tasca, eppure, dal 1989 al 1998, aveva governato le vite di ognuno di noi, perché il valore delle valute nazionali in Europa veniva stabilito con riferimento ad esso.
Il valore dell’ECU, a sua volta, da cosa era dato? Dalla media del valore di tutte le valute dei membri dello SME. L’ECU era cioè una “valuta paniere” (una valuta il cui valore dipendeva da quello di un “paniere” di valute, come il Diritto speciale di prelievo). Quindi la lira si indeboliva rispetto all’ECU (e quindi occorrevano più lire per comprarne uno) se una delle valute nel “paniere” (ad esempio il marco) diventava più forte.
Ora, ricorderete che l’art. 109j primo comma Trattato di Maastricht prevedeva che per almeno due anni prima dell’ingresso nell’Unione monetaria i paesi candidati non avrebbero dovuto svalutare la propria valuta rispetto all’ECU (fatte salve minime oscillazioni). Il senso era chiaro: prima del matrimonio (cambio irrevocabilmente fisso), buon senso chiedeva che ci fosse un periodo di fidanzamento, per vedere se si andava d’amore e d’accordo. La data del matrimonio (l’ingresso nell’euro) era il 1° gennaio 1999, quindi occorreva che i cambi fossero fissati dal 1997. Dato che a fine 1992 la lira svalutò, nel 1997 per acquistare un ECU ne occorrevano 1929,66 (più di prima). Questa quotazione venne “congelata”, ed è sostanzialmente identica alla quotazione “irrevocabile” definitiva, cioè al famoso 1936,27 (dalla quale dista dello 0.3%).
Da questa storia, che è nei dati e in ogni libro di testo, traiamo due conclusioni pratiche, utili per orientarsi in un dibattito spesso dilettantesco o volutamente confuso:
1. in pratica noi nell’euro ci siamo entrati nel 1997, perché è da quella data che la lira non si è più potuta aggiustare rispetto alle valute dei principali partner europei (dato da non ignorare, per non restare vittima dei tanti furbetti in circolazione);
2. se nel 1999 avessimo preso la decisione geniale di entrare a 1000 lire per euro, di fatto avremmo rivalutato (prendendo come base la quotazione del 1997) di circa il 93%.
Questo, credo, lo capiamo tutti: se invece di “comprare” un euro con quasi 2000 lire lo avessimo “comprato” con la metà (1000 lire), vuol dire che l’euro avrebbe avuto il doppio del valore.
Quindi saremmo stati il doppio più ricchi, come evidentemente pensa Cirino Pomicino? Figata! E perché mai allora non ci abbiamo pensato all’epoca? Forse che Ciampi, ministro del Tesoro, bilancio e programmazione economica del governo D’Alema, cioè il successore di Cirino Pomicino in carica il 1° gennaio 1999, era un sempliciotto? Non credo proprio lo si possa dire.
Credo invece che a Cirino Pomicino, e a molti suoi e miei coetanei sparsi per i vari bar della penisola, sfuggano due dettagli, che tali non sono:
1. il valore di una valuta non si decide con un tratto di penna, ma lo stabilisce il mercato (e per il mercato un ECU/euro stava da qualche parte intorno alle 1930 lire);
2. una rivalutazione del 93% ci avrebbe reso più ricchi il primo giorno, e poi ci avrebbe sbriciolato.
Capiamoci: certo che chi come me aveva una busta paga attorno ai due milioni si sarebbe trovato in tasca 2000 e non 1000 euro: il doppio! Certo che per alcuni furbetti sarebbe stato più difficile prezzare a un euro (cioè a duemila lire) quello che fino al giorno prima costava 1000 lire. Ma sarebbe successa anche un’altra cosa, che vi spiego con un semplice esempio. Una Fiat Punto all’epoca costava 17.700.000 lire. Al tasso di conversione ufficiale (cioè dividendo per 1936,27 e arrotondando) facevano 9.150 euro (9.141,28). Al tasso “Pomicino” (cioè dividendo per 1000) avrebbero fatto 17.700,00 euro, cioè quasi il doppio. E voi direte: “Bè, ma che ce ne sarebbe importato! Tanto avremmo avuto anche il doppio di euro in tasca!”
Ecco: noi sì, ma gli altri europei? I tedeschi, ad esempio, entrarono a circa due marchi per ECU (cioè a circa 1000 lire per marco). Se noi fossimo entrati a 1000 lire (anziché circa 2000), per loro la nostra Punto sarebbe costata dall’oggi al domani circa il doppio (17.700 euro anziché 9.150). E lo stesso sarebbe valso per tutti i nostri prodotti esportati verso l’Eurozona.
Chiaro il concetto? La rivalutazione realizzata entrando a 1000 lire sarebbe stata neutrale sul mercato interno, ma catastrofica su quello estero: si stima che un simile raddoppio dei prezzi italiani avrebbe determinato un dimezzamento delle nostre esportazioni. Dall’oggi al domani le imprese italiane avrebbero fatturato 150 miliardi di euro in meno sui mercati esteri.
Certo, c’è un colossale “a meno che”: a meno che i tedeschi non avessero deciso anche loro di rafforzare di conserva il marco, entrando a un euro per marco (anziché per quasi due marchi): nel qual caso, avendo entrambi (noi e loro) raddoppiato il valore nominale delle nostre valute rispetto alla nuova unità di conto, il rapporto fra i nostri e i loro prezzi sarebbe rimasto inalterato. Ma se pensate che i tedeschi siano entrati nell’euro per “rafforzare” la loro valuta, forse vi sfugge una cosa che Vincenzo Visco ha spiegato tanto bene a Stefano Feltri: alla Germania faceva comodo un euro debole (e per questo ci voleva dentro).
E qui torno sulla mia affermazione iniziale, quella secondo cui lo scambio di tweet nel quale Cirino Pomicino dà indirettamente dell’incompetente a Ciampi non è (solo) una chiacchiera da bar del sabato sera. È (anche) la prova provata di una verità storica tanto inoppugnabile (confessio regina probationum) quanto sconvolgente: il fatto che le élite che ci hanno condotto ad aderire a uno dei trattati più gravidi di conseguenze per la storia del nostro paese erano tremendamente superficiali ed impreparate. Se è stato lui a scrivere il tweet che vi ho citato, bisogna dolorosamente concludere che al Ministro del bilancio del governo che firmò Maastricht mancano le basi dell’economia internazionale monetaria. Peraltro, a me mancano quelle di neurochirurgia (la specializzazione dell’ex ministro), e infatti non passo le serate su Twitter a parlarne. Sapete, io sono uno di quei pignoli che vogliono tenere tutto sotto controllo: parlare di cose di cui si sa poco o nulla non è il modo migliore per realizzare questo obiettivo.
Mi dispiace molto per i teorici del complotto: sì, con l’euro abbiamo preso una fregatura, ma i tedeschi cattivi c’entrano fino a un certo punto. Forse sbagliammo anche noi a scegliere una classe dirigente incapace di capire che se il prezzo dei beni italiani raddoppia per un acquirente tedesco, è facile che questi decida di rivolgersi altrove (e quindi compri meno Fiat, ma più Peugeot o Volkswagen).
Non dobbiamo volerne al peraltro simpaticissimo ex ministro, del quale in particolare dovremmo tutti apprezzare la disponibilità al confronto sui social network (segno in effetti di una notevole vivacità intellettuale – ma non necessariamente di competenza in economia). Probabilmente per lui è difficile immedesimarsi in un tedesco, o semplicemente in una persona soggetta a un vincolo di bilancio.
Ai suoi tempi si largheggiava, si sa. E oggi si tira la cinghia. Un bel risultato, del quale lui fu compartecipe con la consapevolezza che abbiamo descritto, e per il quale gli mandiamo il nostro riverente abbraccio.