Negli Stati Uniti si parla di storytelling dalla metà degli anni 90. E lo si fa in moltissimi ambiti: dall’economia al diritto, dal giornalismo alla comunicazione d’impresa, dalla pubblicità alla comunicazione politica, dal marketing alla diplomazia internazionale, dalle scienze cognitive al management. All’epoca la moda fu così pervasiva, che si parlò di narrative turn, “svolta narrativa”. In Italia, che arriviamo sempre tardi, si parla di storytelling da una decina d’anni. Siamo in ritardo, è vero, ma alla fine abbiamo esagerato, perché oggi da noi la parola storytelling, come il calco italiano narrazione e il suo plurale narrazioni, sono diventati un tic linguistico-mediatico, quasi un intercalare. Vietato parlare di storie, o racconti: è tutto storytelling, narrazione o narrazioni. Detto questo, non ci sarebbe niente di male, se non fosse che sono accadute due cose, che allo storytelling non fanno bene per niente.
Primo, la parola si è svuotata. Completamente. Tutti ne parlano, ma (quasi) nessuno sa davvero cosa vuol dire, cosa distingue una buona storia da una che non lo è, una che ti rapisce da una che ti annoia. Tutti si riempiono la bocca di storytelling, ma nessuno (o quasi) ti spiega cosa intende. Dice: è bravo nello storytelling. Sì, ma in che senso? Che storie racconta? Come le costruisce? Cosa le rende efficaci? Dice: un ingrediente fondamentale per far sì che un contenuto (video, immagine, testo) diventi virale su Internet è lo storytelling. Sì, ma cosa vuol dire? Se bastasse una storia qualunque a rendere virale un video, per esempio, la stragrande maggioranza di video su YouTube non avrebbe meno di 100 views come invece di fatto accade.
Secondo, la parola si è deprezzata. E non ha perso poco valore, ne ha perso molto. Al punto che è diventata, in molti contesti, un termine dispregiativo: storytelling come capacità di manipolare il prossimo in modo magari affascinante, ma irrimediabilmente ingannevole, menzognero. Raccontare storie come sinonimo di raccontare balle insomma. Cantastorie come contaballe. Ora, quest’uso dispregiativo si è diffuso soprattutto nella comunicazione politica. Dice: lo storytelling del politico X non basta, ci vogliono fatti. Come dire: lo storytelling è fiction, i fatti sono realtà. Dice: fin qui il politico Y ha dato prova di essere un bravo storyteller, vedremo se ci sa fare. Come dire: vogliamo azioni, non parole vuote. Ancora: con lo storytelling la politica Z ci fa sognare, ma le cose in realtà non vanno bene. Come dire: lo storytelling è malia, incantesimo che impedisce di vedere la realtà.
In realtà invece, come insegnano molti psicologi e scienziati cognitivi, da Jerome Bruner in qua, raccontare storie è cruciale per il funzionamento della mente umana. È un modo fondamentale, imprescindibile, costitutivo, di organizzare la nostra esperienza, la nostra percezione della realtà, ciò che facciamo e che fanno gli altri. È un modo fondamentale di dare senso alla vita. Altro che fuffa e pinzillacchere. Altro che comunicazione politica menzognera. Certo, si possono raccontare storie anche per mentire. Anche, non soltanto. Ma si possono raccontare storie meravigliose per affermare, confermare, rinforzare, imporre, diffondere e rendere vincenti verità meravigliose, e per fortuna lo hanno fatto e lo fanno molte persone in tutto il mondo: in letteratura, a teatro, nella poesia, nel cinema, ma anche nei cartoni animati, nei fumetti, nei videogiochi, su Internet e, sì, persino in politica. Per favore, dunque: non lasciamo che il peggio della politica italiana infanghi il meglio dello storytelling mondiale. Non lasciamo che il peggio del chiacchiericcio mediatico nostrano ci faccia dimenticare la bellezza e la potenza del raccontare storie.