Non mancano esempi sconcertanti di quella che, con espressione à la page, potremmo chiamare rottamazione della “nostra” cultura, in nome magari di esigenze mercantilistiche o, peggio, meramente propagandistiche, d’innato servilismo, spacciato per “sensibilità” e “rispetto”, quando non addirittura di pura e semplice vigliaccheria. Basti pensare alla “brutta figura”, stigmatizzata dall’opinione pubblica internazionale, per l’occultamento dietro pannelli bianchi su tutti e quattro i lati, di alcune statue di nudi dei Musei Capitolini, in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani in Campidoglio, decisa, solo Dio sa da chi, quale forma di “rispetto” alla cultura e sensibilità iraniana; al fatto che durante le cerimonie istituzionali per la visita dell’illustre ospite non è stato servito nemmeno il vino, come accadde, peraltro, già nell’ottobre scorso, quando Renzi ricevette nella sua Firenze il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed;  ma anche al fatto che, sempre “per rispetto”,  a giugno dello scorso anno, per la visita del Papa nella laica Torino, vennero coperti i manifesti della mostra di Tamara de Lempicka. Quest’ultimo caso non causò bufere politiche e magari nessuno lo ricorda neppure, ma non per questo esso è meno grave: proprio il fatto che non innescò alcuna reazione è il sintomo più preoccupante della progressiva espulsione della “laicità” dalla “nostro” patrimonio valoriale.

Non nascondo che, di fronte a questi fatti certamente imbarazzanti, ho accarezzato per un momento l’idea di esplicitare con grande franchezza, alcune mie considerazioni sull’inaccettabile mutazione, purtroppo in atto da tempo, dei fondamenti della “nostra” cultura. Ma, almeno per il momento, ho deciso di abbandonare il proposito, nella convinzione che non vi siano le condizioni per una discussione costruttiva: mi costerebbe troppa fatica puntare al discorso vertebrato, là dove, per contro, alla cantata dei possibili interlocutori sembrano sempre più spesso bastare ugola, memoria selettiva, aplomb, cautela astuta, stomaco forte, loquela impudente, mimica et similia; roba tanto più utile quantomeno insidiata dall’aculeo dello spirito autocritico.

In chiusura dei Topici (VIII [Ɵ], 14, 164 a-b), Aristotele raccomanda di non discutere con chiunque, poiché, avverte lo Stagirita, “quando si discute con certe persone, le argomentazioni diventano necessariamente scadenti” e, allora, “lo sforzarsi con ogni mezzo di concludere la dimostrazione sarà certo giusto, ma non risulterà comunque elegante”. Ottima ragione, dunque, per “non associarsi con faciloneria ai primi venuti”: in tal caso, potrebbe essere necessario “giungere a una discussione velenosa” e sarebbe, dunque, difficile sottrarsi a “una discussione agonistica”. Avvertimento sacrosanto: a ogni pie’ sospinto, ci s’imbatte con interlocutori, che sarebbe più corretto qualificare “altercanti”, i quali, pur di uscire apparentemente indenni dalla discussione, barano simulando obiezioni trionfalmente ribattute; imbrogliano questioni inequivocabili; disputano con grande serietà su cose futili; deformano premesse ovvie con variazioni impercettibili fino a esiti paradossali.

Locutori strenui e velenosi, insofferenti dell’inferiorità, che ritengono ingiusta o casuale, gonfi di risentimento, accesi da fantasie di vendetta, costoro hanno il loro archetipo in Tersite (Iliade, 2, 212-277): individuo spregevole, brutto ma abilissimo nel denigrare; fungibili sono gli oggetti del suo livore e impersonale il suo odio: pur di screditare Agamennone, punta su Achille, suo bersaglio abituale, come manichino retorico per accrescere l’effetto e affossare la vittima. Che parli con destrezza, persino Ulisse lo ammette, ma nella differenza fra i rispettivi discorsi, si rivela l’abisso di qualità fra il livido traffichino losco e parolaio e il megalopsychos, cioè l’uomo coraggioso, non amante, però, del pericolo sino a corrergli incontro, né degli adulatori e, dal momento che guarda agli altri uomini dall’alto in basso (katafronein), «esplicito e franco» [Etica nicomachea, 28, 1124b]). Percosso dallo scettro di Ulisse, viene coperto di biasimo e di ridicolo: “Pauroso e affranto / Tersite sedette, e intorno volgendo / stupido e mesto lo sguardo, il pianto si terse”. A questo livello morale non si fanno questioni di dignità.

Il megalopsychos può anche prevalere sul dialettico pusillanime e malevolo, ma i discendenti di Tersite sono favoriti dalla selezione. Il primo è impulsivo, temerario col nemico, esposto alle eruzioni di collera, amore, venerazione, gratitudine, vendetta; sa dimenticare, rispetta il nemico che si sceglie con cura, fra quelli in cui non ci sia nulla da disprezzare e molto da onorare: un lusso che si può pagare con la rovina. I secondi, invece, prediligono gli itinerari da talpa, ignorano i pregiudizi morali, riducono l’universo alla propria misura screditando quel che toccano: messi di fronte a una cosa venerabile la involgariscono con una battuta. Anche l’educazione che s’impartisce da noi sembra fatta per discriminare fra i primi e i secondi: essa, per dirla con Freud, serve ai giovani quanto un equipaggiamento di abiti estivi e mappe dei laghi italiani in un spedizione polare.

Breve, il rispetto di me stesso e degli altri m’impone, dunque, il silenzio: parleranno per me i fatti enunciati in apertura, che, se guardati in trasparenza, lasciano intravvedere sfondi abissali.

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