Nella lettera gli ricordava le mani strette durante la campagna elettorale e lo invitava a rammentare “chi c’era al funerale di suo suocero”. Chiedeva le sue dimissioni e gli rimproverava di aver difeso i cutresi solo dopo che sua moglie era stata accusata di aver acquistato una casa da uno degli arrestati di Aemilia, la grande inchiesta contro la ‘ndrangheta in Emilia Romagna. Mercoledì 3 febbraio, a tre giorni dalla missiva inviata al sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi da Pasquale Brescia, uno degli imputati dell’indagine antimafia, per il primo cittadino scatta il momento della scorta. Vecchi, eletto nel 2014 tra le file del Partito democratico, sarà seguito da un vigile urbano e non potrà guidare da solo. “È una giusta cautela, il destinatario è il sindaco in persona, non altri. Non è una minaccia generica”, spiega a ilfattoquotidiano.it Enzo Ciconte. Il professore, ex deputato, è considerato uno dei massimi conoscitori del fenomeno delle infiltrazioni mafiose da queste parti: già ben prima dell’operazione Aemilia del gennaio 2015, fu tra i primi a raccontare della colonizzazione malavitosa tra Reggio, Parma, Piacenza, Modena. E secondo lui quella lettera conterrebbe un tipico messaggio mafioso: “Non c’è dubbio. Fermo restando che per Pasquale Brescia vale la presunzione d’innocenza”.
Per Ciconte il messaggio mafioso va inquadrato “nella prosecuzione di quella campagna mediatica di cui si parla nelle carte dell’inchiesta Aemilia”. “Negli anni passati – spiega – questa operazione era stata condotta con le interviste in tv e sui giornali, tanto che anche un giornalista è stato arrestato. La ‘ndrangheta reggiana vuole fare passare un’idea: finché la situazione economica andava bene, le ditte cutresi venivano accolte a braccia aperte. Quando invece è intervenuta la crisi economica, allora la politica e le cooperative li hanno mandati a quel paese, e quindi è intervenuta la prefettura e le interdittive antimafia. Gli uomini delle ‘ndrine si sono presentati come vittime”. Un’idea questa che non sta in piedi: “Le interdittive dell’ex prefetto di Reggio Emilia, Antonella De Miro colpivano sia le imprese di origine cutrese che quelle di origine emiliana, non c’era distinzione”. Insomma, secondo Ciconte la lettera arrivata dal carcere – e recapitata non direttamente al sindaco, ma alla redazione di un giornale – “è una sorta di chiamata a raccolta di tutti i cutresi contro le istituzioni”.
“Se ci sono vittime a Reggio Emilia – prosegue Ciconte – quelle sono i cutresi che pagano il pizzo. Poi ci sono la stragrande maggioranza dei cutresi che sono lavoratori, anzi faticatori. E poi ci sono gli ‘ndranghetisti. Queste cose bisogna metterle in chiaro perché solo così si evita di mandare tra le loro braccia tutti i calabresi”.
“Il punto più importante – spiega Ciconte – è che secondo me la lettera a Vecchi rientra in una operazione già avviata dalla ‘ndrangheta, che negli ultimi anni ha teso a creare una polemica politica”. La ricostruzione di Ciconte riporta alla mente le carte dell’inchiesta Aemilia: secondo la Direzione distrettuale antimafia, la ‘ndrina reggiana tentò per esempio di avvicinare Giuseppe Pagliani, allora capogruppo Pdl in provincia, perché combattesse una battaglia, politica appunto, contro le interdittive della prefettura. Pagliani, ora imputato con la accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, fu arrestato nel gennaio 2015 e poi rilasciato su ordine del Riesame. A inguaiarlo era stata una cena, nel 2012, con alcuni presunti ‘ndranghetisti poi considerati a capo dell’associazione mafiosa reggiana, in un ristorante di proprietà di Pasquale Brescia.
Nella lettera, arrivata alla redazione reggiana del Resto del Carlino per mano dell’avvocato difensore, Brescia ha chiesto le dimissioni di Vecchi perché non avrebbe difeso la folta comunità calabrese proveniente da Cutro presente in città. Una lettera secondo cui il sindaco non sarebbe “intellettualmente onesto”, perché avrebbe iniziato a difendere i cutresi (a Reggio, secondo la lettera, trattati “come ebrei in Germania sotto Hitler”) solo quando è stata attaccata la moglie, Maria Sergio, anche lei originaria del paesino calabrese. Brescia nella sua lunga lettera scrive a Vecchi dei parenti della Sergio: “Siete fortunati sindaco, perché sua moglie lavora nel pubblico”, nonostante, scrive Brescia, ci sarebbe chi tra i parenti ha avuto problemi con la giustizia. “Altri cutresi, per una cosa del genere non possono lavorare nemmeno nel privato”.
“Ci infangano perché stiamo combattendo la mafia”, ha detto Vecchi poche ore dopo che la notizia della lettera è trapelata. “La città sta vivendo un passaggio storico, fondamentale è tempo di scegliere se stare dalla parte della legalità, delle istituzioni democratiche e delle persone oneste oppure dalla parte sbagliata”, ha spiegato Vecchi che ha anche sporto denuncia.