E’ andata come previsto, come tutti i sondaggi indicavano. Hanno vinto gli outsider, i candidati che corrono “contro” i loro stessi partiti. Il senatore Bernie Sanders ha trionfato nelle primarie democratiche del New Hampshire con il 60 per cento dei consensi. Donald Trump prevale tra i repubblicani con il 35,1. Dietro di lui, nella compagine ancora affollatissima del G.O.P., emerge il governatore dell’Ohio, John Kasich; Marco Rubio, dato da molti come la probabile alternativa a Trump, subisce una bruciante sconfitta. In campo democratico, Hillary Clinton concede la vittoria a Sanders, dice di “guardare avanti”; ma per lei si tratta di un passo falso grave, che la costringe a ripensare tutta la sua strategia.

Bernie Sanders, vittoria in salita – Il senatore del Vermont è comparso nel quartier generale di Concord quando la vittoria era ormai ampiamente definita. Entusiasmo alle stelle, tra i suoi, che levavano cartelli con lo slogan della campagna, “A future to believe in” e ritmavano “Ber-ni-e, Ber-ni-e”. Sanders ha evidenziato subito la caratteristica, popolare, dal basso, della sua campagna. “La gente del New Hampshire ha mandato un messaggio chiaro all’establishment politico, all’establishment economico, ai media dell’establishment”, ha detto. Per rendere il concetto ancora più chiaro, ha spiegato che il suo stesso partito gli ha tirato dietro di tutto, “tranne il lavandino della cucina. Ma sento che tra poco mi tireranno dietro anche quello”. Sanders ha ancora un volta sottolineato il dato che rende “diversa”, la sua campagna: “3,7 milioni di persone che la pagano di tasca propria”. Ci sono alcuni dati che rendono particolarmente buona la sua performance: secondo i primi dati, il senatore ha vinto tra gli elettori che guadagnano più o meno di 50mila dollari all’anno; ha vinto sia tra gli uomini sia tra le donne; ha vinto tra i minori di 35 anni e quelli con più di 65. L’entusiasmo di queste ore non deve però far dimenticare che il suo compito resta per molti versi improbo. Su base nazionale, secondo un sondaggio CNN, la Clinton resta avanti di dieci punti. Ha più soldi, soprattutto ha dalla sua tutta la nomenclatura del partito e gruppi etnici fondamentali come ispanici e afro-americani. Tra poche ore, a New York, Sanders incontrerà a colazione il reverendo Al Sharpton. E’ un primo passo per avvicinarsi al voto degli afro-americani, ma è appunto soltanto un inizio. Intanto il senatore si gode la vittoria e mette a punto una narrazione che potrebbe aiutarlo nelle prossime settimane. Nel salutare la vittoria in New Hampshire, ha detto: “Sono il figlio di un immigrato polacco arrivato in questo Paese senza sapere una parola di inglese… Mia madre è morta giovane senza realizzare il sogno di una vita: comprare una casa… I miei genitori non avrebbero mai sognato che loro figlio sarebbe stato candidato alla presidenza… Questa è la promessa dell’America”. Una curiosità: Sanders è il primo ebreo a vincere uno Stato in una primaria presidenziale.

Hillary Clinton, il momento di cambiare – Per giorni lo staff della Clinton ha cercato di abbassare il più possibile le aspettative. Il New Hampshire è “terra di Sanders”, hanno detto, perché confinante con il Vermont e perché sede di un elettorato democratico bianco e progressista, congeniale a Sanders. La sconfitta è però di quelle dure da digerire, e non soltanto per le dimensioni: un misero 38,4 per cento. Il New Hampshire è lo Stato dove la Clinton, nel 2008, riuscì a battere Obama. Qui i ricordi per i Clinton sono comunque buoni. Nel 1992 lo Stato consegnò a Bill una sfavillante vittoria. Ancora lo scorso novembre, Clinton e Sanders erano alla pari nelle previsioni di voto. Il crollo dell’ex-segretario di stato è quindi soltanto in parte atteso e accettabile. Nelle prossime Bill e Hillary dovrebbero mandare a casa parte dello staff e assumere nuovi consulenti. Si tratta, per la candidata, di ripensare anche le strategie (lo ha ammesso lei stessa, nel discorso post-voto), dicendo che il New Hampshire “è una sveglia potente”. Nei giorni scorsi Hillary ha subito il messaggio di Sanders, fino a doversi dichiarare “una progressista”. La cosa non ha funzionato, l’ha fatta apparire debole e soprattutto insincera. La storia dei legami con Wall Street, le parcelle a suon di migliaia di dollari incassate da Wall Street hanno contribuito a indebolire la sua immagine. E’ ora, appunto, di cambiare. Nei minuti immediatamente precedenti la chiusura dei seggi, il campaign manager della Clinton, Robby Mook, ha reso pubblico un memo in cui si dice che “un democratico non può vincere la nomination senza un forte sostegno tra afro-americani e ispanici”. Come a dire, soltanto la Clinton può vincere. Nelle prossime ore Hillary farà campagna con la madre di Trayvon Martin e con quella di Eric Garner: un altro modo per corteggiare il voto afro-americano (da segnalare come a questo punto la sfida democratica si trasforma in una battaglia etnico-razziale). Le prossime tappe il South Carolina e il Nevada (dove è forte l’elettorato ispanico) appaiono a lei più favorevoli. Ma c’è appunto molto da cambiare. Questo inizio di primarie si è risolto, per la “candidata inevitabile”, in una pesante débacle.

Donald Trump, la corsa continua – Il 46 per cento degli elettori repubblicani, andati alle urne, dice di “essere arrabbiato col proprio partito”. Non sorprende dunque che il candidato che in questi mesi ha dato fiato a ogni tipo di protesta, rigurgito anti-establishment e tirata populistica esca vincitore da questo giro di primarie. Trump, nel salutare i suoi sostenitori e prima di prendere l’aereo che lo ha portato in South Carolina, è apparso per una volta sinceramente emozionato. Ha ringraziato la moglie, ha dedicato la vittoria al fratello scomparso, ma non ha perso l’occasione per ripetere alcuni dei suoi numeri: la disoccupazione “non è al 5,5 per cento, come dice l’ufficio delle statistiche, ma al 42 per cento”; “faremo a pezzi l’Isis”; “faremo tornar grande l’America, batteremo Giappone e Cina”. Oltre le dichiarazioni, c’è un dato che dovrebbe cominciare a preoccupare la leadership del G.O.P.: la maggioranza degli elettori repubblicani del New Hampshire, a prescindere dal candidato che hanno votato, dice di “non aver alcun problema nel caso Trump fosse il nominato”. In altre parole, Trump non è più l’outsider impresentabile, ma sta conquistando una sua legittimità. Ora il magnate scende a Sud; dove, c’è da giurarci, idee come il muro col Messico e la tutela del “sacro Secondo Emendamento” promettono di risuonare con particolare forza tra gli elettori conservatori.

Kasich, Rubio e gli altri – Dietro Trump, si piazza buon secondo John Kasich, con il 15,9 per cento dei consensi. Il governatore dell’Ohio è un repubblicano moderato, inviso ai settori più radicali del partito, che lo definiscono “l’Obama repubblicano”. Kasich ha beneficiato dell’elettorato più laico del New Hampshire, rispetto all’Iowa; subito dopo l’arrivo dei risultati, ha spiegato che il suo messaggio, “tutto positivo, mai contro, ha pagato”. Ora, con la campagna che fa rotta verso Sud, le difficoltà per lui aumentano. Ma la vittoria in New Hampshire, pur non designandolo per forza come il candidato dell’establishment contro Trump, gli dà comunque slancio e qualche possibilità. In via del tutto ipotetica, Kasich potrebbe essere quello che John McCain e Mitt Romney furono nel 2008 e nel 2012. Parlando di candidato dell’establishment, esce malissimo dalla serata elettorale Marco Rubio, che dopo il terzo posto dell’Iowa sembrava poter essere l’alternativa conservatrice ma presentabile a Trump. Rubio conquista in New Hampshire un misero 10,6 per cento. Fatale gli è stato il dibattito repubblicano di sabato, dove ha ripetuto meccanicamente, per tre volte, la stessa frase (da qui l’hashtag che ha fatto furore sui social, Rubiorobot). Se Ted Cruz aspetta il South Carolina, e poi l’Alabama e la Georgia il 1 marzo, per ritrovare quel voto evangelico che gli è congeniale, Jeb Bush e Chris Christie vivacchiano, non si sa ancora per quanto. La cattiva notizia che arriva dal New Hampshire per il partito repubblicano è comunque soprattutto una. Lo sfidante da opporre a Trump ancora non c’è. Per qualche giorno si è pensato potesse essere Rubio, ma forse non è così. La battaglia tra i repubblicani promette di essere lunga e senza esclusione di colpi. Togliere di mezzo Trump non sarà facile.

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