Trasparenza dei bilanci, obiettivi di redditività, blocco di assunzioni ed esuberi, oltre a fondi di accantonamento nei bilanci degli enti con società in perdita già dal 2015. Con i decreti attuativi della riforma Madia cambiano in maniera radicale le regole per le partecipate pubbliche. O meglio, per quasi tutte le controllate dello Stato e della pubblica amministrazione. Dalle nuove disposizioni, che ridurranno le partecipate da 8mila a mille, resterà fuori un piccolo ma significativo manipolo di imprese. Un gruppo di società “miracolate” che non saranno obbligate a piani di rientro. Non dovranno calcolare gli esuberi o chiudere i battenti nel caso di quattro esercizi di perdita sugli ultimi cinque. Per non parlare del fatto che non saranno nemmeno obbligate a ridurre le poltrone di consigli di amministrazione e comitati, a tagliare i compensi degli amministratori, a eliminare trattamenti speciali di fine mandato per i manager e a introdurre il divieto di cumulo fra stipendio pubblico e compenso della partecipata.
Ma quali sono le aziende che il governo Renzi ha pensato bene di mettere al sicuro dalla mannaia della Madia? Innanzitutto le società quotate e quelle che puntano a sbarcare in Borsa nel giro di diciotto mesi come ad esempio le Ferrovie dello Stato. Il gruppo è, del resto, nel pieno di una riorganizzazione che vede come obiettivo il mercato dove, sotto il governo Renzi, sono arrivate altre due società pubbliche, Fincantieri e Poste, con manager pagati molto meglio di quanto non preveda la riforma Madia.
Quotate e matricole a parte, spiccano poi casi rilevanti di esenzioni legate a doppio filo con la primavera elettorale in arrivo in duemila comuni. Un esempio? Expo 2015, la società guidata dal candidato sindaco del centrosinistra per Milano, Giuseppe Sala, che non ha ancora alzato il velo sui risultati di redditività dell’esposizione meneghina. O ancora Arexpo, l’azienda pubblica che ha acquistato le aree del sito fieristico milanese e che è destinata a coprire parte delle perdite di Expo. Ma anche l’agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti, Invitalia, con tutte le sue controllate, inclusa Infratel che gestirà gli investimenti pubblici nella fibra. E’ noto che Invitalia, dispensatrice di fondi pubblici per start-up, innovazione e rilancio aree industriali, non navighi in buone acque con il rosso consolidato che ormai è diventato cronico. Eppure per il governo il gruppo continua ad essere un riferimento per lo sviluppo dell’occupazione soprattutto nel Mezzogiorno, dove le opportunità di lavoro sono ormai ridotte al lumicino e l’imprenditoria nascente conta ancora sulla possibilità di ottenere un finanziamento statale. Insomma, per l’esecutivo si tratta di un asset troppo importante che evidentemente non è il caso di imbrigliare con tutti i lacci della Madia.
Esentata dalle nuove regole anche Eur spa, il gruppo romano che ha sfiorato il collasso e che si è salvato vendendo quattro palazzi all’Inail per ultimare la Nuvola di Fuksas realizzata dalle Condotte spa della famiglia Bruno. La situazione per l’azienda è del resto ancora delicata e il clima elettorale infuocato della Capitale impone di evitare colpi di testa. Fuori dal perimetro della Madia sono inoltre rimaste altre aziende strategiche come la società di investimenti immobiliari del ministero dell’Economia, Invimit, che combatte con un trend di mercato negativo per il mattone italiano. E poi ancora Anas, al centro di uno scandalo per appalti truccati; Coni servizi con un bilancio positivo nel 2014 grazie ad una maxipartita straordinaria; l’Istituto poligrafico e zecca dello Stato; l’azienda di smaltimento rifiuti nucleari Sogin; il gruppo delle rinnovabili Gse; l’azienda dell’Information technology Sogei, nonché la concessionaria dei servizi assicurativi pubblici Consap e persino il consulente acquisti della pubblica amministrazione Consip.
Sull’esenzione può aver pesato il fatto che il decreto ha dato il via a un piano di razionalizzazione delle partecipate pubbliche con l’eliminazione di quelle senza dipendenti, con più amministratori che dipendenti, con attività, analoghe ad altre, con un fatturato medio inferiore al milione e risultato negativo negli ultimi quattro esercizi su cinque. Ma soprattutto d’ora in poi le amministrazioni dovranno tenere un fondo vincolato per gli accantonamenti per le perdite delle partecipate. In pratica, gli enti dovranno avere nei loro bilanci una sorta di fondo “copertura rischio d’impresa”. Con una norma a far valere già dal 2015 e con un impatto anche sui conti delle amministrazioni già alle prese con pesanti difficoltà di bilancio.
Davvero un peccato perché con il decreto sulle partecipate pubbliche sarebbe stata la volta buona per far pulizia e trasparenza in tutti i carrozzoni pubblici di ogni ordine e grado. Resta la magra consolazione che d’ora in poi, almeno, si complica la procedura per aprire nuove aziende pubbliche. L’ente che ritiene di dover creare una nuova controllata per perseguire “le proprie finalità istituzionali” dovrà innanzitutto procedere ad una consultazione pubblica. Poi l’atto deliberativo sarà inviato alla sezione locale della Corte dei Conti per eventuali rilievi e all’Antitrust. Superati questi scogli, l’azienda pubblica statale potrà nascere solo su decreto della Presidenza del consiglio su proposta del ministero dello Sviluppo economico e del ministero competente.