Presente Bud Spencer appoggiato al bancone del bar? Quando lascia gli altri prendersi a botte e lui a un certo punto si volta, sbuffando, e tira ceffoni, sedie, bottiglie e birilli da bowling mettendo tutto a posto. Matteo Renzi ha fatto lo stesso con le unioni civili. Quando giovedì prossimo, il Senato voterà la fiducia sulla legge per le coppie omosessuali, l’Italia sarà ancora senza una legge (unica in Europa) perché manca il voto alla Camera. Ma sarà lui a passare da risolutore, come il padre che ripara la bici al figlio. Il Parlamento ha fatto un gran mercato, ma è rimasto impantanato? Tecnicismi e mezzucci, ceffoni e birilli? Arrivo io e metto tutto a posto. “La ragionevolezza vuole che intervenga direttamente il governo: è l’unico modo per dare una legge sulle unioni civili”. Non il Pd, men che meno “l’inaffidabile” M5s. Piuttosto il governo. Cioè lui.
Il ritorno del mito della velocità, del fare presto. Senza mai sporcarsi, senza farsi trascinare nella lotta nel fango, senza farsi logorare dai giochetti parlamentari delle finte e dei giochi delle tre carte, gli sms da stanza a stanza, i borbottii in Transatlantico. “La soluzione parlamentare andrebbe a lungo, troppo a lungo, con il rischio che gli emendamenti facciano riaprire il discorso alla Camera e poi di nuovo al Senato” dice il capo del governo, eppure non ci sono prove, nessuno sa come sarebbe andata. Il Senato aveva rinviato di una settimana per cominciare a votare. Il “supercanguro” – epicentro dello scontro con i Cinquestelle – non esiste più, Grasso lo ha ritenuto inammissibile. E i voti sull’adozione del figlio acquisito erano in bilico, ma non è detto che la battaglia fosse persa. La sfida era rischiosa, piena di trappole come ha ripetuto cento volte la Cirinnà, ma non era persa, non era scontata. Invece dopo una settimana si voterà un altro testo, quello del governo. Tutti allineati. Non sarà un voto a sancire la fine o il trionfo del ddl Cirinnà. Ma una decisione del capo dell’esecutivo che così avrà messo il timbro sulla strada più facile, con una legge “morbida”, Alfano tenuto vicino e la colpa agli altri: i grillini, i partiti, il Parlamento.
La differenza tra gli altri che perdono tempo e lui che è piè veloce ormai doveva essere visibile, anzi misurabile: 6 giorni, il tempo che gli è servito per mettere in fila il partito e far approvare una legge dimezzata, sgualcita rispetto al ddl Cirinnà, ma “meglio che niente”. Venerdì ha atteso una pausa di un vertice di Bruxelles, ha preso il telefono e si è messo d’accordo con Alfano. Domenica è andato all’assemblea del Pd e ha lanciato l’idea dello stralcio dell’adozione e della fiducia. Lunedì ha fatto preparare il testo. Nel frattempo ha messo i vescovi al loro posto, cioè nelle chiese, ha trattato i renziani ultracredenti come se fossero Fassina (“A chi dice ‘o fate come dico io o me ne vado’, la mia risposta ha 4 lettere: ciao”). Laico quanto basta, moderato quanto basta: via le adozioni. Oggi ha fatto approvare l’idea tra i senatori Pd. Sì, c’è il solito Gotor, ci sono i Giovani Turchi di Orlando e Orfini che chiedono “garanzie”. Ma figurarsi: domani si voterà l’emendamento che mette nell’armadio l’adozione del figlio acquisito. E giovedì la fiducia. “Potrebbe non essere il testo migliore rispetto alle attese di tanti ma potendo scegliere tra il tutto mai e un pezzo oggi è meglio fare subito la legge, altrimenti il rischio è la paralisi, l’ennesima palude in cui come faceva sempre la politica si chiacchiera e si promette e poi non si mantiene”.
La cronaca degli ultimi mesi racconta come abbia messo per la prima e unica volta in questa storia questa energia risolutiva. Solo domenica ha messo questa legge al livello delle sue riforme fondamentali come Jobs Act e Italicum, i suoi gioiellini. Lo ha fatto domenica ma nello stesso momento stava decidendo la ritirata, la legge monca.
Prima di oggi, sulla legge tutta intera erano stati silenzio, mezze parole; non era un suo problema, a parlare in televisione andava Lorenzo Guerini. Bud Spencer al bancone, insomma. Ha lasciato che in Parlamento si scannassero, ha guardato da lontano la scazzottata per settimane diventate poi mesi. Nel Pd si risvegliavano i clericali e scattava la rissa permanente con i laici. I Cinquestelle votavano sì in commissione, ma poi si attorcigliavano sulla libertà di coscienza (prima totale, poi parziale). “Se in quegli ultimi 20 minuti – ha ripetuto oggi per il terzo giorno consecutivo – non ci fosse stato l’ennesimo voltafaccia dei 5 Stelle avremmo chiuso lí la partita. Se il M5S avesse mantenuto l’impegno che aveva preso. L’impegno che c’era, non c’è bisogno di mostrare gli sms”. E poi c’era la Lega che presentava 5mila emendamenti di cui migliaia senza senso, solo per fare casino. Allora il Pd, per non far dilaniare il testo, ci provava con canguroni e cangurini, complicati trucchi parlamentari che l’opinione pubblica delle slide, degli slogan e dei tg non ha voglia di capire. E poi nel frattempo di nuovo i Cinquestelle che non erano d’accordo sul metodo, il canguro “incostituzionale”, “antidemocratico” e procedevano al dietrofront. Così ecco tutto daccapo, un’altra volta, l’ennesima, dopo due anni di dibattito in Parlamento, durante i quali l’Italia è stata superata in coda alla classifica dalla Grecia.
Il presidente del Consiglio nel frattempo ha parlato sottovoce, è intervenuto quasi mai, se non per dire che ci avrebbe pensato il Pd, che quella non era materia di governo, ma del Parlamento, anche perché esponenti della maggioranza come Giovanardi e Sacconi in commissione stavano facendo il diavolo a quattro: ostruzionismo, minacce di crisi politiche, sceneggiate. Lui fissava solo le date: entro primavera, entro l’estate, entro settembre, entro la fine dell’anno, entro febbraio.
Ma il voto non arrivava mai, tutte le scadenze venivano superate. Ha mandato avanti Monica Cirinnà, renziana certo, ma che in certi momenti è sembrata sola a difendere un disegno di legge nato con una maggioranza larga e morto orfano. Ha lasciato a lei, a Luigi Zanda, a Giuseppe Lumia il compito di tagliare e cucire in Parlamento una legge con la quale il Pd non si facesse troppo male. Ha lasciato a loro l’incarico di trattare con i Cinquestelle e con Sel, i partiti che su questo tema sembravano avere le posizioni più vicine. Allo stesso Movimento ha dato – dice lui – la possibilità di “riscattarsi”, di essere coinvolti nell’approvazione di una legge che allinea l’Italia al resto dell’Occidente. “Ma niente, ci hanno fregato”. E allora ci deve pensare lui: si alza dal bancone, sbuffa, si volta e in 6 giorni risolve. “Fuori da qui c’è un mondo che si aspetta un testo con diritti e doveri che fino a tre mesi fa parevano impossibili”.
Per i partiti e per il Parlamento restano cerotti e lividi. Non solo per la Lega Nord i cui emendamenti finiranno nel nulla. Non solo per Forza Italia che è scomparsa insieme al suo leader. Non solo per i Cinquestelle che la narrazione renziana farà passare per coloro che fanno tattica e non rispettano gli impegni, per coloro che dicono sì e poi tornano indietro con un fischio di Grillo. “Ho visto un incredibile cinismo nell’atteggiamento di chi strumentalizza i desideri delle persone a fini personalistici e squallidi”. Ma soprattutto i dolori sono per il Pd, minoranza e peones non fa differenza. Tutti loro hanno difeso la legge come l’unica possibile.
A partire dalla Cirinnà, nel suo intervento in apertura di discussione sulla legge, dopo aver superato le pregiudiziali di costituzionalità. “Il punto è uno – diceva la senatrice, con grande passione – il nostro ordinamento non ammette discriminazioni tra i figli basate sulla cornice giuridica del rapporto tra i loro genitori”. Ma c’erano dichiarazioni tutti i giorni a tutte le ore, di senatori di tutte le correnti. “Se dalle unioni civili venisse stralciata l’adozione del figlio del partner, si avrebbe una legge che si occupa solo degli adulti e volta le spalle a tanti bambini che già esistono ed al loro sacrosanto diritto ad avere una famiglia” diceva ancora prima il giovane turco Francesco Verducci. “Non prendo in considerazione l’ipotesi che la legge non passi con anche la stepchild” ripeteva il presidente Matteo Orfini. “E’ una delle poche cose – aggiungeva Pierluigi Bersani – che si stanno facendo e che era nel programma del 2013″. Ecco, e invece nemmeno quella.