“Per quest’anno non cambiare, stessa clinica stesse suore”. Chiedo venia a Mr. Focaccia – che mi segue sempre e che saluto – per il riadattamento religioso sanitario della sua marittima canzone, ma è necessario all’introduzione di questo post.

All’ordine del giorno, infatti, troviamo il mio recente ricovero per i controlli “antidoping” di routine, che consistono nel verificare la mia condizione respiratoria: “e come l’anno scorso”, e quelli precedenti, da buon francesino agnostico (ovvero il fanatico della distrofia di Duchenne, dubbioso sull’esistenza dei piani superiori del creato) scelgo sempre una clinica con un alto tasso cattolico.

Preparati armi e bagagli, il 27 gennaio si è tenuto il mio personale D-Day: puntuale come un orologio svizzero eccomi davanti all’ingresso della religiosa clinica nella piangente Brianza lecchese, quando all’improvviso mi ricordai che quel giorno ricorreva la Giornata della memoria (dimenticarsi il giorno della memoria è davvero preoccupante) e questo mi spinse a una seria riflessione: un sofferente, nel giorno della sofferenza per antonomasia, viene ricoverato nel luogo della sofferenza massima, una cattoclinica. Meglio di così…

Varcata la soglia nell’indifferenza generale – essere un esemplare di disabile tra tanti altri è deprimente – noto il primo cartello: le vignette ritratte vietano l’ingresso con il passamontagna, il burqa e il casco. Tuttavia sembra permesso poter entrare in moto, fare una rapina o farsi esplodere. Perplesso, mi accingo a percorrere il “Viale del Cattolicesimo”, ovvero il tragitto che dall’ingresso mi porta dritto in stanza.

La prima tappa del tour ha come protagonista l’immancabile chiesetta, che richiama sempre un gran numero di sofferenti: tra ictus, aneurismi, infarti, incidenti, malattie rare e non, c’è l’imbarazzo della scelta, tant’è che la messa clou – quella domenicale – viene addirittura proiettata nel salone d’ingresso (manco fosse una partita della nazionale).

Percorro qualche metro e incontro la seconda tappa, nella fattispecie una suora. Dopo i soliti convenevoli, si premura di dirmi di chiamarla per qualsiasi cosa, al che la ringrazio e lei, giustamente, risponde: “Prego”. E certo è una suora, anche se non c’è bisogno di rivendicare continuamente la propria vocazione. Dopodiché passo a fianco della sala delle macchinette, dove regna incontrastata l’immagine del cittadino più trendy di Pietrelcina, la cui salma pochi giorni dopo sarebbe stata avvistata per le strade della Capitale.

Quarta tappa l’area ascensori, che ospita il cartello più divertente: “Il rispetto per i sofferenti e per la casa richiede un conveniente abbigliamento dei visitatori”. Questo è solo un becero tentativo di sbugiardare la filosofia del saggio Albanese: “u pilu” non fa male a nessuno, anzi un po’ di gambe tirano su il morale delle truppe, e non solo… inoltre non so se si era notato in precedenza, ma la definizione di “sofferente” mi piace al punto che mi sta proprio qui (il dove lo scegliete voi, purché sia fastidioso).

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Indispettito giro le ruote e vado ad impattare – non c’è un attimo di riposo – contro lo stendardo della Beata Giovannina Franchi: oh per fortuna c’è qualcuno che non soffre (più), beata lei. Finalmente entro in ascensore, ma che ansia.

E non è finita qui: mancano le montagne, altrimenti che tour sarebbe? Sto per raggiungere la stanza quando scorgo Lei, l’Immacolata, la star incontrastata della clinica, Miss “Material girl”. A Lei è stato riservato un angolo tutto suo (quanti vizi queste star).

Ormai prossimo a prendere i voti, affronto l’ultima tappa: entro in camera e chi trovo ad attendermi? Ovviamente Lui, l’uomo in croce e dal grande conflitto di interessi: padre falegname e i crocifissi quasi tutti in legno. E nessuno ne parla, neanche la Gabanelli tocca l’argomento (e poi abbiamo da ridire della Boschi).

Passano 48 ore e realizzo di aver puntato il dito contro un potente della terra troppo potente (questo significa fare il giornalista), che mi ha punito surriscaldandomi: febbre a 38. Questo, a sua volta, mi ha costretto a letto con Lui davanti ai miei occhi. Come potrete ben immaginare l’obbligata convivenza cominciò subito a nuocere ad entrambi, urgeva quindi ristabilire l’equilibrio geopolitico nella stanza: per dirimere la questione, da veri uomini sofferenti, optammo per una sfida da pistoleri in stile far west. A entrambi parve un’ottima idea, ma trascurammo un particolare: chi avrebbe fatto la prima mossa, quando è l’immobilismo a regnare sovrano?

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