Primavera-Araba-Tunisi[English Version]

Cinque anni, e in Siria, 500mila morti dopo, la Tunisia è l’unico paese della primavera araba in cui la rivoluzione non è deragliata. Gli islamisti di an-Nahda governano insieme ai laici di Nidaa Tounes, e nonostante un vicino difficile come la Libia, nonostante l’attacco al museo del Bardo e quello di Sousse, un anno fa, con cui gli jihadisti hanno abbattuto il turismo dell’85 per cento, e provato a minare tutto, ogni angolo, qui, ha ancora intatta tutta la sua bellezza da cartolina.

La Tunisia ti ricorda molto l’Europa, ti dicono gli analisti, è vivace, libera: è tutta un caffè all’aperto, ti dicono, i tavolini affollati a tutte le ore del giorno. Ed è vero. Ma perché sono tutti disoccupati, qui. Nessuno ha altro da fare.

Sidi Bouzid è a 200 chilometri da Tunisi, ed è la città in cui tutto è cominciato. La città in cui il 17 dicembre 2010 Mohamed Bouazizi, 26 anni, si è cosparso di benzina e ucciso dopo la confisca del carretto di frutta e verdura con cui tirava a campare, orfano di padre, e primo di cinque fratelli. Lavorava da quando aveva 10 anni. Il suo suicidio ha travolto Ben Ali e l’intero mondo arabo, e oggi la strada principale, qui, ha il suo nome. Ma è l’unica differenza. Tutti, dai caffè, ti guardano, non abituati agli stranieri, in questo cumulo in mezzo al nulla di polvere e cemento e aria stantìa, la terra che già si disfa in sabbia. Il deserto inizia poco più a sud.

Sidi Bouzid è uno di quei posti in cui non si vendono neppure cose cinesi, solo cose usate, a prima vista ti sbagli e scambi il mercato per una discarica – è uno di quei posti in cui le madri vendono i pupazzi dei figli appena crescono. La Tunisia non è Europa, qui, è Africa. In 6mila sono già partiti per Raqqa, ma non per l’Islam: si arruolano nell’Isis per avere lavoro.

Negli ultimi cinque anni, a Sidi Bouzid la disoccupazione è raddoppiata (dal 14 al 28 per cento) – ma i numeri veri, come sempre, sono molto più alti, anche perché spesso non si guadagna abbastanza da viverci. I numeri veri sono quelli dei ragazzi che vedi su un tetto, all’improvviso, su un cornicione, su un traliccio dell’elettricità: vogliono suicidarsi, suicidarsi come Mohamed Bouazizi, perché tanto, come ribattono a chi, di sotto, tenta di fermarli, “tanto siamo già morti”.

Anche se a colpirti, in realtà, qui, non è la povertà, non è la disperazione: a colpirti è quanto poco basterebbe per cambiare le cose. Perché rispetto a paesi complessi come il Libano, come l’Iraq, lo Yemen, la Tunisia è davvero un’eccezione. Non ha petrolio, caratteristica che per certi versi è una fortuna, perché significa che non è una preda, come la Libia, né ha un esercito che come in Egitto è un sistema di potere occulto, pronto a tutto per difendersi. Né è come la Siria, come la Turchia: la Tunisia ha un valore geopolitico marginale. E ha dei sindacati solidi, capaci di mediare le tensioni tra laici e islamisti. Ha un sistema elettorale che incentiva i governi di coalizione. La nuova costituzione è stata approvata dopo un dibattuto lungo, ponderato. Partecipato. Le difficoltà politiche della Tunisia, onestamente, sono niente in confronto a quelle degli altri paesi arabi.

Il problema, qui, è essenzialmente l’economia: e noi europei potremmo facilmente intervenire attraverso più forti, e più equilibrati, rapporti commerciali, oltre che con un premio Nobel e una pacca sulla spalla. E allora? Perché invece stiamo qui a guardare i ventenni suicidarsi? O spiaggiarsi morti a Lampedusa? Perché stiamo qui a contare le bandiere nere, gli jihadisti sempre più radicati? Perché stiamo qui ad aspettare che precipiti tutto?
Fondamentalmente, perché non ce ne importa niente. La democrazia, la libertà – la verità è che non ce ne importa niente.

In questi cinque anni la nostra scelta è stata chiara: difendere la stabilità. Difendere la stabilità a ogni costo – anche se le cose non sono stabili perché sono salde, qui, ma perché sono ferme. Ferme con la forza. E quella che noi chiamiamo stabilità, qui si chiama repressione. Ma il nostro unico obiettivo è contenere al-Qaeda, o quello che diventa nel tempo, l’Isis, il califfo di turno contro cui tutto è permesso, tutto è lecito. Contenerlo, però, non sconfiggerlo: perché in realtà ci è utile. In realtà ci consente di giustificare tutto in uno stato di emergenza permanente, di agire senza l’autorizzazione dell’Onu, dei parlamenti, del buon senso, di bombardare senza alcuna discussione pubblica paesi che neppure sapremmo individuare su una mappa: e soprattutto, ci consente di tenere il mondo arabo diviso.

L’Isis è il nemico perfetto. L’unica cosa che difendiamo davvero, quando difendiamo la stabilità, è la continuità dei nostri affari con i nostri alleati e soci locali. L’Italia sostiene al-Sisi semplicemente perché ha 2,6 miliardi di dollari di partecipazioni nei settori più vari, il cemento, le banche, i trasporti. Il gas: il nuovo giacimento scoperto dall’Eni vale da solo circa 100 miliardi di dollari. Mentre Giulio Regeni veniva torturato e ucciso, e magari caricato su una camionetta prodotta dalla Iveco, guidata da un poliziotto con un proiettile della Fiocchi nella canna della sua Beretta, una delegazione di 60 nostre imprese era al Cairo a riscuotere i dividendi della stabilità.

In nome degli affari, l’Italia è disposta a sentirsi dire che Giulio Regeni era una spia, che è stato un complotto dei Fratelli Musulmani, o forse una cospirazione sionista, una vendetta personale. Un incidente stradale. Forse è caduto dalle scale. In nome degli affari, l’Italia si è venduta non solo l’etica, ma anche la dignità.

Ogni volta che scrivo di Egitto, di Siria, di Iraq, mi sento dire: ma gli arabi non sono pronti per la democrazia. La Libia stava meglio con Gheddafi.
Anche l’Italia: che era il suo primo partner economico. E il suo primo fornitore di armi.
Siamo noi, in realtà, a non essere pronti per la democrazia.

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