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L’ipocondria non passa mai di moda: diario di serate al pronto soccorso e altri (falsi) allarmi

Divertissement di Domenico Naso

Divertissement di Domenico Naso

Scrivi un bel pezzo sull’ipocondria?”. E via, alla ricerca di citazioni colte, etimologia del termine, casi ultranoti del passato e del presente. Ma perché scomodare Molière e Woody Allen, o anche solo un più nostrano Carlo Verdone, quando nella tua vita sei andato almeno dieci volte in pronto soccorso convinto di avere un infarto in corso?

L’ipocondria è una roba seria, signori miei, e se a vent’anni non avete mai speso un milione e duecentomila lire (era il lontano 2000) per un check-up completo (senza motivo alcuno) in uno degli studi medici più prestigiosi della Capitale, non potete capire di cosa stiamo parlando. Che poi tecnicamente è un disturbo psichiatrico, quindi alla fine abbiamo ragione noi ipocondriaci: siamo malati! Magari non rischiamo di morire, almeno non secondo le conoscenze sin qui acquisite in campo medico. Perché noi ipocondriaci, in realtà, siamo medici del futuro. Noi vediamo cose che dottoroni e raggi X, tac e risonanze, non riescono ancora a vedere. Quasi quindici anni fa, sarà stato il 2002 o giù di lì, mi sono recato al pronto soccorso del Policlinico Umberto I di Roma, come facevo almeno una volta al mese, convinto che stavolta era la volta buona: infarto. Sicuro. Garantito. Il braccio sinistro faceva male? Sì. Senso di oppressione? Urca. Fitte alla bocca dello stomaco? A iosa.

In taxi, mentre mi dirigevo in ospedale, cominciavo già a pensare come avvertire i miei: “Appena arrivo chiedo all’infermiera più pucciosa che c’è di chiamare mia madre, se dovesse andare storto qualcosa, e di avvisarla della mia dipartita con tatto e delicatezza”. Ma voi conoscete gli infermieri di un pronto soccorso? Povere stelle, sono abituati a tutto: da tragedie immani e corpi maciullati a tossici che nottetempo cercano un’iniezione di qualsiasi cosa, anche di Cedrata Tassoni o di Idraulico Liquido. E poi ci sono quelli come me, gli ipocondriaci, i più odiati da medici e paramedici e di ogni ospedale d’Italia. Di infermieri pucciosi nemmeno l’ombra, soprattutto se arrivi urlando: “Sto avendo un infarto! Sto avendo un infarto!”. Di solito ti accoglie il più incazzoso di tutti: “Vie’ qua. Che c’hai? Famme capi’?”. Tu parti sgranando il Rosario dei sintomi, convinto che stavolta ci siamo, che la diagnosi non potrà che essere quella. E c’è qualcosa di perverso, parliamoci chiaro, perché quasi speri che ti dicano: “Sì, signor Naso. Lei sta avendo un infarto e probabilmente non lo supererà”. E invece no, niente. Nemmeno quella volta: “Allora, amore de zio, tu nun c’hai un cazzo. Mica te sei drogato?”. No, niente droghe, mai nella vita. Ovviamente per paura di star male. “E allora fai così: vattene a casa e famo finta de gnente, che qua c’avemo tanti di quei cazzi!”. No, nossignore. Non si può tornare a casa così, senza un minimo di soddisfazione. Ed è lì che parte la richiesta pietosa che solitamente i burberi infermieri accettano pur di non vederti più: “Scusi, ma almeno un elettrocardiogramma per stare tranquilli?”.

Ma più che gli ipocondriaci, che in fondo ci sguazzano, nelle loro paturnie maniaco-depressive, a soffrire sono i loro parenti. I miei genitori, per esempio, venivano puntualmente svegliati nottetempo dal sottoscritto: solitamente mi avvicinavo furtivo al loro lettone, al buio. Poi arrivavo a pochi centimetri dal volto di mio padre, raccoglievo le poche energie rimaste a un povero moribondo ed esclamavo: “Papa! Sto morendo!”. Quel pover’uomo, svegliato di soprassalto, rischiava davvero l’infarto. Sgranava gli occhi, mi fissava, raccoglieva le idee e poi chiudeva la faccenda con un risolutivo: “Vattene a letto e non rompere i coglioni!”. E io tornavo disperato in camera mia, pensando a quanti rimorsi avrebbe dovuto sopportare, quell’insensibile genitore, quando al mattino dopo mi avrebbe trovato senza vita, anche per colpa di quell’allarme notturno volgarmente ignorato.

Lo so, la curiosità, arrivati a questo punto, è la seguente: ma ora che hai quasi 36 anni, continui con questa pantomima? Nossignore, non così. La fase allarmistica-ospedaliera è finita attorno ai 24 o 25 anni. Ora sto vivendo un altro periodo molto interessante della mia vita ipocondriaca: quello dell’immedesimazione. Se sento di qualcuno affetto da una patologia grave, ecco che ce l’ho anche io. Ictus, infarti, tumori, malattie infettive, anche tropicali ed esotiche, che quindi non avrei mai potuto contrarre: ho tutto e anche di più. Da quanto a mia madre hanno purtroppo diagnosticato il Parkinson, almeno una volta al giorno controllo le mani, col terrore di vederle tremare più del solito. Siamo fatti così, noi ipocondriaci, e anche se spesso ci si scherza su, è davvero una enorme rottura di scatole. Soprattutto quando una delle tue sorelle ha dolori premestruali e dentro te scatta un momento di disperata invidia: “Maledizione! Non potrò mai prendere un Moment Rosa!”.

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