Fukushima, 5 anni dopo. Da dove vogliamo cominciare? Dalle notizie brutte? O quelle buone? Cominciamo da quest’ultime. Anche perchè son poche, ma importanti.

La magistratura? C’è. La prima, che risale proprio a pochi giorni fa, è quella che dopo una prima, frettolosa e incredibile archiviazione (in Giappone l’azione penale è discrezionale e la magistratura, lungi dall’essere indipendente, è fortemente “controllata” dal governo), tre dei massimi dirigenti della Tepco, la società che gestisce la centrale di Fukushima (e molte altre) sono stati formalmente incriminati: negligenza e concorso in disastro nucleare. Sapevano ed erano stati avvertiti ufficialmente che le barriere erano insufficienti e se ne erano fregati. Andranno a processo, e c’è da scommettere che sarà un processo “storico”: aiuterà i giapponesi ed il mondo a non dimenticare Fukushima e costituirà un incentivo e uno stimolo per tutte le cause civili, soprattutto le cosiddette “class actions” – comuni nei paesi anglosassoni ma sinora sconosciute in Giappone – ad ottenere, quantomeno, ingenti e sacrosanti risarcimenti.

È una bella notizia anche perché dimostra che un istituto pressoché sconosciuto del codice di procedura penale funziona. È previsto all’art 248 del cpp e prevede che una commissione speciale – elettiva – di cittadini possa chiedere alla procura di “riconsiderare” la decisione di archiviazione. Il parere della commissione non è vincolante, ed infatti è successo pochissime volte, in passato, che venisse accolto. Ma stavolta lo è stato. E questo significa che in Giappone, vivaddio, la magistratura comincia a dar segni di “vita”: di “compassione sociale”, insomma, e di indipendenza dal potere esecutivo.

Passato lo psicodramma. Altre notizie positive? Poche. E tutte molto, come dire, minuscole, legate a ricordi e relazioni personali. Il fatto, ad esempio, che la maggior parte delle persone che avevo conosciuto durante i primi, drammatici giorni, stanno bene. Quasi nessuno è tornato a vivere nelle città e nei villaggi evacuati in modo frettoloso, disorganizzato, molto poco “giapponese”: ma quanto meno non dimostrano segni di malattie, conseguenze dirette delle radiazioni. Parlo dei “vecchi”, o quantomeno degli adulti. Per i giovani e soprattutto i bambini il discorso è diverso. Non sono in grado di valutare l’accuratezza delle varie indagini/denunce circa l’aumento esponenziale dei tumori alla tiroide.

Tra esagerazioni e negazionismi è difficile orientarsi. Ma è più che legittimo immaginare che qualche conseguenza ci sia stata. E, sopratutto, ci sarà. Va da sé che nessuno vorrebbe essere nei panni delle migliaia di mamme di Fukushima che oramai da 5 anni e probabilmente per sempre vivranno nel terrore che una semplice febbre, un prurito, un qualunque malessere nasconda qualcosa di ben più grave. È quella che Rob Nixon, in un suo prezioso saggio (Slow Violence, Gender and the Environmentalims of the poor) definisce “minacce permanenti e invisibili che rendono insopportabile la stessa esistenza”. Di qui l’alto numero di persone, che per un motivo o per l’altro, hanno “ceduto” e si sono suicidate.

Per carità: la maggior parte degli evacuati – forzati o volontari che siano – non ha problemi economici: i sussidi, sia pubblici che privati (si fa per dire: la Tepco di fatto è diventata un’impresa statale) sono spesso più che sufficienti. A volte anche troppo. Ma le esigenze materiali non sono tutto, per i giapponesi. Ed infatti alcuni (soprattutto gli anziani) li rifiutano sdegnosamente, insistendo e pretendendo solo di poter tornare nelle loro case, mentre altri (ahimè i giovani) li usano per “sfangarla”: anziché cercar lavoro, migrare o perchè no emigrare, aspettano i primi del mese, incassano il sussidio e vanno a giocarselo alle corse o al micidiale pachinko, il gioco d’azzardo più misterioso e alienante del mondo. Curiosità: attorno alla cosiddetta “zona proibita”, i primi ad essere riapparsi sono stati proprio i pachinko, prima ancora di scuole, ospedali, biblioteche, supermercati e negozi vari.

Ad essere stata colpita, mortalmente, è infatti l’anima, il tamashi del Giappone. Il “motore” spirituale, il collante etico e morale che ha fatto superare a questo grande popolo secoli di catastrofi naturali, repressione, arroganza e corruzione politica (tutt’ora imperante). La tradizionale volontà e capacità di credere – o quanto meno sopportare – le autorità (ad ogni livello: dal capostazione al capufficio, dalla Tv di stato al governo) è stata intaccata. Ed in qualche caso, persa per sempre. E questo non aiuta, non aiuterà un Giappone che checché ne dicano Shinzo Abe e il suo governo continua ad attraversare una crisi che non è solo economica (altro che Abenomics!) ma soprattutto politica, sociale, culturale. Il mondo ha sempre fatto fatica a “decifrare” il Giappone. A sapere da dove venga, dove sia e dove stia andando. Ma ora non lo sanno più nemmeno i giapponesi. Il che è grave. Molto grave.

Il governo mente ancora. Basta. Abbiamo già esaurito, si fa per dire, le notizie buone. Adesso cominciamo con le cattive. La prima, la più importante e quella dalla quale discendono, come palle appese ad un albero di natale, è che il governo giapponese continua a mentire. Al suo popolo, innanzitutto: e di conseguenza al mondo intero. Il discorso di Abe a Buenos Aires, quando andò a perorare la causa delle Olimpiadi (aggiudicandonsele, incredibilmente) sostenendo che la situazione a Fukuhima era sotto controllo e che i Giochi avrebbero aiutato non solo il Giappone, ma in particolare la regione più colpita dallo tsunami, il Tohoku, e la stessa Fukushima è un po’ la madre di tutte le bugie, il simbolo di questa grande, irresponsabile e inescusabile, menzogna di stato.

La seconda, ad essa conseguente e per la quale c’è una pesante complicità dei media giapponesi, sopratutto, ma anche internazionali, è che aldilà di quanto è uscito e uscirà in questi giorni in cui ricorre il quinto anniversario (ma durerà poco, vedrete) è iniziato anche per Fukushima quel processo, più o meno indotto, di amnesia strategica che ha già colpito i precedenti “incidenti” nucleari ed in genere il “villaggio nucleare”. Villaggio dove omertà, corruzione, manipolazioni e menzogne sono da sempre endemiche e funzionali. Da quello dell’atollo di Bikini (1954) a Mayak (1957) e Santa Susana (1959), disastri gravissimi e rimasti pressoché sconosciuti. Fino a Three Mile Island e Cernobyl. Roba del passato. Incubi, certo, ma sepolti. Per non parlare di Hiroshima e Nagasaki, o del Progetto Manhattan, attorno al quale è nata una sorta di Disneyland della tecnologia vincente americana, dove le scolaresche celebrano gli scienziati e dimenticano le vittime che i loro prestigiosi studi hanno provocato.

Del resto ancora oggi negli Usa c’è chi crede alle pietose bugie di Truman, (“Hiroshima è un obiettivo militare, e buttando la bomba abbiamo salvato vite umane”), come in Giappone (anche se l’opinione pubblica è decisamente cambiata) c’è ancora chi crede nel nucleare sicuro, pulito ed economico che “illuminerà il nostro futuro”, come si legge in un emblematico striscione all’entrata di Futaba, uno dei villaggi ancora sigillati, che nessuno ha avuto il pudore di strappare. Ecco: Fukushima sta facendo, forse ha già fatto, la stessa fine: abbiamo interiorizzato i radionuclidi e le altre schifezze sputate dai suoi reattori, oltre che nel nostro stomaco e nei nostri polmoni, nella nostra ignara, ma talvolta colpevole, pigrizia mentale. Peccato che l’incidente di Fukushima sia tutt’altro che concluso. Sinora, e solo grazie ad una serie di circostanze fortuite e di coraggiose decisioni prese a suo tempo dall’ex premier Naoto Kan (in questi giorni a Roma per la presentazione del film “Fukushima: a nuclear story”, che verrà trasmesso da SkyTg24 l’11 marzo) Fukushima non ha probabilmente provocato danni ambientali, umani e sociali come Cernobyl.

Ma il problema è che può ancora succedere di tutto. A 5 anni di distanza, la centrale di Fukushima è ancora in piena emergenza: 2 (forse 3) reattori sono ancora in meltdown (qualcuno usa il termine, forse più appropriato, di melt-through), migliaia di litri di acqua contaminata – ufficialmente raccolta in contenitori posticci e tutt’altro che ermetici – vengono dispersi nelle acque dell’oceano e – peggio ancora – filtrano nelle falde acquifere della regione, e dio solo sa quali potrebbero essere le conseguenze di un nuovo, anche meno intenso di quello del 2011, terremoto che colpisse la regione. Evento tutt’altro che sotegai (“aldilà dell’immaginazione”), termine che i dirigenti della Tepco hanno sin dai primi giorni usato per giustificare l’imprevedibilità della catastrofe. Certo uno tsunami di 30 metri è imprevedibile. Ma un terremoto, nella zona più ballerina del pianeta, certamente no. Ed è stato il terremoto, è bene ricordarlo, che ha causato il primo, decisivo black-out alla centrale, quello che ha provocato il primo meltdown.

L’amnesia strategica. “Questo la Tepco lo sapeva benissimo – ci ha detto l’ex premier Kan – ma si è guardata bene dal comunicarlo non solo ai cittadini, ma perfino al nostro governo. Ci sono voluti quasi tre mesi prima che la Tepco ammettesse il triplo meltdown…” Parola di un ex premier. Del Giappone, mica della Repubblica delle Banane. E la domanda sorge spontanea: ma se in un Paese come il Giappone il “villaggio nucleare” è riuscito a omettere, manipolare e mentire in questo modo, cosa potrebbe succedere, cosa e magari già successo, altrove, dove trasparenza e diritto all’informazione sono parole non solo disattese, ma addirittura sconosciute?

 da Il Fatto Quotidiano del 7 marzo 2016

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