Ci vorranno diversi decenni, forse secoli, perché gli effetti sulla natura e sull’uomo dell’incidente alla centrale Fukushima Daiichi, nel nordest del Giappone, si azzerino. A dirlo è Greenpeace, a cinque anni dal più grave incidente nucleare dopo Chernobyl. L’11 marzo del 2011 un terremoto di magnitudo 9.0 colpiva il Nordest del Giappone, scatenando un potente tsunami alto fino a quaranta metri. Quasi 16mila persone persero la vita. Ancora oggi sono oltre duemila i dispersi. Fu proprio l’onda anomala a causare i primi malfunzionamenti alla centrale nucleare di Fukushima Daiichi a cui seguì il meltdown di tre reattori.
Il 4 marzo scorso l’ong ambientalista Greenpeace ha pubblicato un rapporto, Radiation Reloaded, che fa luce sulle conseguenze della fuga di sostanze radioattive dal sito di Daiichi sull’ambiente naturale circostante — boschi e fiumi, in particolare — e quelle più a lungo termine sull’uomo. Nel rapporto vengono citati recenti studi scientifici che hanno rivelato, tra l’altro, mutazioni probabilmente dovute all’esposizione alle sostanze radioattive nei tronchi degli abeti e infine alti livelli di cesio, sostanza radioattiva prodotta dalla fissione dell’uranio, in ampi tratti di costa nei pressi degli estuari dei principali fiumi che attraversano la provincia di Fukushima.
Sono proprio le aree boschive, di cui la provincia di Fukushima è ricca, a costituire una sorta di “magazzino” di radioattività. E questo, dice il rapporto, potrebbe causare rischi sul lungo periodo per la salute della popolazione locale. Soprattutto perché le sostanze radioattive potrebbero essere “liberate” da incendi o tifoni — comuni in Giappone soprattutto verso la fine dell’estate — e interessare anche zone lontane da Fukushima.
“Il massiccio programma di decontaminazione intrapreso dal governo non avrà alcun impatto sulla riduzione della minaccia ecologica posta dall’enorme quantità di radiazioni sprigionate nell’ambiente dal disastro nucleare di Fukushima”, ha spiegato Kendra Ulrich, attivista anti-nuclearista di Greenpeace. Tokyo ha infatti fin qui ripulito solo parte delle aree residenziali interessate dalle fuoriuscite di sostanze radioattive dalla centrale Daiichi.
Secondo l’attivista di Greenpeace, inoltre, “il governo Abe continua a sostenere il mito secondo cui a cinque anni di distanza dall’incidente di Fukushima tutto sia tornato normale”. Una retorica strumentale al ritorno del Sol levante al nucleare a livelli pre-2011. Dopo la riattivazione di due reattori a Sendai, nel sud dell’arcipelago ad agosto del 2015, da pochi giorni è tornato in funzione il reattore 4 della centrale di Takahama, Giappone centro-occidentale. Questo nonostante il governo giapponese, come ricorda Greenpeace, sia ben lontano dall’aver risolto il nodo Fukushima.
Sono circa 160mila le persone che hanno dovuto abbandonare la propria abitazione all’indomani dell’incidente nucleare del 2011; 100mila coloro che ancora oggi vivono in stato di evacuazione in alloggi temporanei o in case popolari. Oltre 30mila i km quadrati di terreni contaminati dalle fuoriuscite. Enormi i costi: quasi 110 miliardi di euro, ha stimato Kenichi Oshima della Ritsumeikan University di Kyoto in un intervista al Financial Times, oltre la metà dei quali è andata in indennizzi alle aziende e agli evacuati. Ci sono poi i costi dei lavori dello smantellamento del sito di Daiichi e della bonifica dell’area interessata dalle fuoriuscite (entrambi pari a più di 25 miliardi di euro).
Per la centrale le stime parlano di quarant’anni. Per la bonifica dei terreni, invece, il governo Abe vuole bruciare le tappe. Entro il prossimo anno verrà sospeso l’ordine di evacuazione per alcune località situate nell’arco di 20 km dalla centrale che potranno riaccogliere gli sfollati. Ma, per i “rifugiati nucleari” mancano le garanzie. A cominciare dal sostegno economico, che verrà meno a partire dal 2018 quando il governo chiuderà i rubinetti degli indennizzi per l’incidente del 2011.
Il 2 marzo scorso centinaia di persone sono scese in piazza a Tokyo per protestare contro le politiche del governo giapponese, accusato di “abbandonare le vittime nucleari”. La bonifica delle aree candidate a riaccogliere gli evacuati — le zone “di difficile ritorno”, dove l’esposizione annuale alle radiazioni è di 50 millisievert — è ben lontana dall’essere completata. Inoltre, anche se i più recenti dati sulla radioattività nell’aria e nei cibi di gran parte della provincia di Fukushima sono confortanti, nella popolazione permangono dubbi e paure.
Milioni di metri cubi di rifiuti radioattivi — temporaneamente in fattorie o in impianti di depurazione delle acque di scarico — destinati ad aumentare con il procedere dei lavori di bonifica rimarranno sul suolo della provincia di Fukushima. Secondo il quotidiano locale Kahoku Shimpo, sono già 10 milioni e la previsione del Ministero dell’Ambiente è di arrivare a 22 milioni alla fine delle operazioni di decontaminazione. A dicembre del 2015, il governatore della provincia, Masao Uchibori, aveva dato l’ok al piano del governo per il Fukushima Ecotech Center, una struttura a gestione privata in cui saranno stoccati 650mila metri cubi di rifiuti contaminati. Ma potrebbe non bastare.
La gente del luogo non si fida più. Stato e Tokyo Electric (Tepco), la utility dell’energia che gestisce il sito di Fukushima Daiichi, su tutti. Tepco, negli ultimi cinque anni, ha più volte dimostrato la sua scarsa affidabilità. Pochi giorni fa l’azienda ha ammesso di aver ritardato la comunicazione del meltdown nel nucleo di uno dei reattori della centrale. E pesano sull’ex dirigenza — che sarà processata a breve per “negligenza”— le accuse di non aver preso le contromisure adeguate ad evitare l’incidente pur essendo al corrente dei rischi legati a un evento naturale di vasta portata.
di Marco Zappa