Prende il via il 12 marzo la nuova modalità di consegna delle dimissioni per il lavoratore. Non più in forma cartacea, ma esclusivamente per via telematica. La novità è stata introdotta dal Jobs act, con l’intento di fermare il fenomeno delle dimissioni in bianco, cioè quando l’azienda fa firmare al dipendente la rinuncia al posto del lavoro in anticipo, al momento dell’assunzione. E solo più avanti, l’imprenditore completa il documento con la data desiderata, in modo da sbarazzarsi del lavoratore quando meglio crede. Ma sull’intervento grava l’ombra del rischio, paventato dalla Fondazione studi consulenti del lavoro, che questa operazione possa costare 1,5 miliardi di euro per lo Stato e oltre 100 milioni per le aziende. “Un mostro giuridico”, è il commento di Rosario De Luca, presidente della fondazione.
La nuova disciplina delle dimissioni riguarda tutti i lavoratori subordinati, con qualche eccezione. Non vale innanzitutto per i dipendenti pubblici, ma anche per i lavoratori domestici, marittimi, durante i periodi di prova e nei casi di recesso nelle sedi protette. Le dimissioni durante la gravidanza e nei primi tre anni di vita del figlio dovranno invece essere ancora convalidate alla direzione territoriale del lavoro. La modalità telematica riguarda tanto le dimissioni quanto la risoluzione consensuale del rapporto tra lavoratore e impresa. Per l’invio del modulo, il dipendente può rivolgersi a un soggetto abilitato, cioè un patronato, un ente bilaterale, un sindacato o una commissione di certificazione, oppure fare da solo attraverso un’apposita sezione del sito del ministero del Lavoro. Chi vuole fare da sé, deve avere il codice pin dell’Inps o farselo inviare. A quel punto, si potrà procedere inserendo i dati relativi al lavoratore, all’azienda, al rapporto di lavoro e alla comunicazione di recesso. Infine, il modulo sarà inviato via mail all’impresa e alla direzione territoriale del lavoro. Va ricordato che il lavoratore ha sette giorni di tempo per ripensarci e revocare le dimissioni, sempre accedendo alla stessa sezione del sito del ministero. Se la rinuncia al lavoro sarà consegnata con un’altra modalità, non sarà ritenuta valida.
Ma al di là delle novità pratiche, c’è il nodo dei costi dell’operazione. I calcoli della Fondazione studi consulenti del lavoro partono da uno scenario comune. “Spesso il lavoratore rassegna le dimissioni all’azienda, ma poi non completa l’iter – spiega De Luca – C’è chi litiga con il capo e non si fa più vedere, chi torna improvvisamente al Paese d’origine. Esiste una bibliografia clamorosa sugli abbandoni del lavoro da parte di cittadini extracomunitari“. La fondazione stima che si verifichino circa 70mila episodi del genere ogni anno. Finora, in questi casi, il datore inviava una raccomandata al dipendente chiedendo se confermava le dimissioni. E se lui non rispondeva, scattava la regola del silenzio assenso: la rinuncia al lavoro si intendeva tacitamente confermata. “Con le nuove regole, invece, questo sistema decade e il lavoratore è obbligato, ma senza sanzioni, a completare l’iter delle dimissioni – aggiunge De Luca – Ma se non lo fa, e per esempio se ne va all’estero all’improvviso, l’impresa non può fare altro che licenziarlo. Con tutta una serie di costi”. La prima spesa sarebbe per lo Stato: in caso di licenziamento, al lavoratore spetta la Naspi, il sussidio di disoccupazione. E i consulenti del lavoro stimano una spesa di 1,47 miliardi in 24 mesi per gli abbandoni al lavoro nell’arco di un solo anno. Inoltre, le aziende devono pagare il ticket licenziamento, pari a circa 1.500 euro: in totale, la fondazione quantifica un esborso di 105 milioni di euro in un anno per le imprese. Al di là dei costi in caso di abbandono del lavoro, va calcolato anche quanto i lavoratori pagheranno per farsi assistere da patronati e altri soggetti abilitati. I consulenti del lavori stimano 15 euro di spese di segreteria per una platea di circa 700mila persone in un anno: in questo modo, il costo totale per le tasche dei lavoratori arriva a 10,5 milioni di euro.