“L’attentato a Bruxelles per certi versi è peggio di quelli di Parigi. Dimostra quanto sia capace la rete dello Stato Islamico in Europa. E’ una minaccia evoluta, è la dimostrazione di forza di una rete europea che in barba a tutti i controlli e tutte le indagini riescono a organizzare un attentato nel cuore dell’Europa e nel punto più presidiato di tutti: l’aeroporto”. Parola di Gabriele Iacovino, coordinatore degli analisti del Centro Studi Internazionali (CeSi) che a caldo dopo gli attacchi ragiona della forza degli aggressori e della debolezza degli aggrediti, anche in Italia dove – dice l’esperto – “siamo molto deboli su alcune cose come le forze di intervento rapido ma forti su altre, come il controllo del territorio e il coordinamento delle intelligence”.
Perché hanno colpito ora, una rappresaglia per l’arresto di Salah?
“Da un’analisi rapida e sommaria sulle poche notizie che abbiamo di fatto questo attentato dovrebbe essere stato organizzato da tempo perché non si può improvvisare un attacco con esplosivi in una città come Bruxelles in pochi giorni. Quindi un attentato preparato da tempo, ma la tempistica dell’esecuzione è stata decisa dopo l’arresto di Salah, anche e forse perché di fatto i terroristi hanno avuto il timore che potesse dare informazioni su questo attentato o chi lo stava per compiere. E quindi bruciare tutta la preparazione che questo attentato aveva richiesto”.
Cosa vogliono dimostrare?
“Destabilizzare, minare il nostro senso di sicurezza, certo. E per certi versi ci sono riusciti perché questo attacco ci costringe a chiederci: come è possibile che in un periodo come questo, dove il Belgio dovrebbe essere sottosopra per cercare Salah, di fatto sia stato possibile organizzare un attentato del genere? Un attacco che è addirittura è un passo avanti di metodologia rispetto a Parigi? Qui non si parla nuovamente di attentatori che si mettono a sparare in mezzo alla strada con dei kalashnikov reperiti sul mercato nero. No, qui stiamo parlando di bombe, esplosivi. Ormai siamo abituarti a pensare alle bombe come qualcosa di semplice che si costruisce in casa guardando il bigino su Internet. Non è così, c’è bisogno di un’expertise, di una conoscenza, di una preparazione e capacità di gestire determinati materiali. E poi di trasportarli. Stiamo parlando di trasportare degli ordigni di martedì mattina nei punti nevralgici della capitale d’Europa”.
Come si fa a bucare la sicurezza al suo massimo livello?
“Di fatto è semplice perché se io e lei abbiamo una valigia possiamo andarci ovunque, ma è quello che c’è nella valigia che è complicato. Quindi, da una parte expertise, dall’altra capacità di movimento, inoltre di mettere a sistema una rete per creare un attacco del genere, perché stiamo di nuovo parlando di un attacco congiunto su vari posti anche lontani tra loro, perché l’aeroporto è a 15 km dal centro di Bruxelles. Quindi di cellule coordinate con operativi, logistica, comunicazione e ospitalità perché poi bisogna anche nascondersi, come ben dimostra lo stesso Salah. La cosa che in questo momento fa venire ancor di più i brividi è come questo sia possibile quando l’attenzione era massima perché si cercava un terrorista. Quindi quando c’era più difficoltà negli spostamenti, perché c’era sempre la polizia, c’era più difficoltà nelle comunicazioni perché di fatto si stava in ascolto. Anche la rete, probabilmente, doveva essere ben protetta perché di fatto si sono mossi quando le attenzioni delle forze dell’ordine erano altissime”.
Com’è possibile colpire addirittura l’aeroporto, cioé un punto sensibile per definizione?
“Il sistema di sicurezza occidentale degli aeroporti è focalizzato sulla sicurezza dei velivoli, è un retaggio degli anni Settanta. Infatti io e lei facciamo i controlli dopo, per andare agli imbarchi. Mentre se andiamo in altri paesi, più difficili come Algeria, lo stesso Pakistan ma anche in Ucraina di fatto si fanno controlli con il metal-detector all’ingresso dell’area del check-in, infatti a Bruxelles l’ordigno è esploso proprio lì dove di fatto non ci sono controlli per entrare. E questo significa esporre il fianco da parte nostra, da parte dei terroristi sfruttare la falla in un sistema di sicurezza. Il problema è che il terrorismo colpisce la nostra vita quotidiana. E inevitabilmente in quella ci sono delle falle nella sicurezza. Perché sennò non potremmo fare nulla”.
Cosa ci dice allora questo attentato in aeroporto?
“Che bisogna portare la barriera “oltre”. Pensi ai treni che fanno della velocità la loro punta di diamante. Perché se devo perdere tempo per accedere al treno, a questo punto prendo l’aereo che ci mette di meno. E’ lo stesso concetto: perché non entrare in stazione con un ordigno? E’ veramente difficile fermare gli attentati una volta che sono stati posti in essere. Il punto fondamentale è cercare di prevenirli mettendo a sistema tutte le informazioni della rete di polizia e di intelligence, l’apparato di sicurezza di uno Stato o più Stati. E’ questa la vera sfida che di fatto in Europa, al pari della sfida politica, sta per essere persa: il coordinamento di tutte le intelligence europee è un punto fondamentale e non sta funzionando. Siamo lontanissimi. Se pensa che l’11 Settembre Cia ed Fbi non si sono mai parlati e sono dello stesso stato. Si figuri in Europa, è difficile”.
Ma sono i radicalizzati che sono troppi e difficili da controllare o le autorità belghe ancora una volta dimostrano di non essere in grado?
“Da una parte è un fenomeno difficile da controllare. Perché di fatto stiamo parlando di cittadini europei, di trovare l’ago in un pagliaio. Ma è al difficoltà intrinseca del lavoro dell’agenzia di sicurezza. Di fatto però abbiamo visto da una parte, tra Parigi e Bruxelles che comunque chi organizza questi attentati ha degli spazi di manovra. E dove li trova? In quartieri dove le forze di polizia non entrano, se non sparando. Le banlieue parigine, le periferie di Bruxelles, dove per entrare di fatto devi sparare. Una situazione sui generis. In Italia, ad esempio, non ci troviamo di fronte a questi casi se non per altri fenomeni criminali. Nulla accade a caso: se c’è la possibilità di organizzare qualcosa, io vado dove è più facile organizzarlo. Quindi in quelle regioni”.
Cosa è cambiato rispetto ad Al Qaeda?
“E’ cambiato il messaggio, più patinato e potente, del Califfato, di Daesh e dello Stato Islamico. Il messaggio di radicalizzazione di Al Qaeda non era così forte. EQuella di Bin Laden era un’agenzia di sevizi, finanziava, supportava, preparava. Lo Stato Islamico lavora anche sull’identità, sull’appartenenza e un messaggio molto più “accogliente” per coloro che intendono ingaggiare la guerra santa o non si sentono participi della società europea. E questo ha allargato e moltiplicato i recettori del messaggio che si fa più forte, suggestivo, pervasivo soprattutto nei giovani. Anche perché raggiungere la Siria è molto più facile che andare in Afghanistan. Basta andare in Turchia, prendere l’auto e in un paio di giorni sei lì, dove c’è una palestra pronta per la radicalizzazione da mettere a frutto al rientro, perché grazie al passaporto è facile andare come tornare”.
Italia. Come siamo messi?
“E’ vero che oggi siamo più esposti per un ritrovato impegno del nostro Paese in Libia. Ma è anche vero che sarebbe stato difficile starne fuori di fronte a una minaccia così totalizzante come il Daesh. Siamo tutti occidente ai loro occhi. E tuttavia l’Italia ha una forza nella sua rete di polizia che non ha eguali in Europa. Un po’ perché siamo ridondanti e pletorici, per cui ci piace avere 5 numeri di emergenze. Ma a quei numeri rispondono varie autorità e il fatto stesso di avere polizia e carabinieri di permette di avere un controllo del territorio maggiore della gendarmerié in Francia o la polizia belga. La rete urbana della polizia e quella extraurbana dei carabinieri è comunque una rete estesa che non ha pari in Europa. Quindi non è che siamo al sicuro grazie a questo. Però di fatto come facevamo prima distinguo sulla capacità di questi gruppi che trovano in alcuni quartieri lo spazio d’azione, dobbiamo anche dir e che di fatto in Italia abbiamo una situazione diversa. Non necessariamente migliore, ma diversa”.
Certo, la minaccia è così multiforme che di fatto è difficile dire che siamo sicuri…
“Però accanto a quel modello esteso di controllo de territorio, noi abbiamo uno strumento che di fatto in Europa non ha nessuno: il ‘Casa‘, comitato di analisi strategica antiterrorisimo. E’ un comitato di cooperazione composto da tutti i servizi di intelligence italiani e tutte le forze di polizia che uno o due volte la settimana si mettono al tavolo e mettono a sistema tutte le informazioni. Detta così sembra banale, ma di fatto non succede altrove. Nel mondo dell’intelligence il problema spesso non è trovare l’informazione, ma condividerla e metterla a sistema. Se lei ha un pezzo e io un altro dell’informazione ma non vengono uniti, sono entrambe inutili. Da sole non significano nulla, insieme risolvono il problema. A questo serve il ‘Casa’”.
La grande minaccia per l’Italia?
“In questo momento arriva dalla radicalizzazione dei Balcani. Sono un territorio poco controllato, dove la radicalizzazione è forte ma anche la malavita con i mercato nero delle armi. E’ come se fosse la nostra banlieue separata da un mare che ci divide però se prendiamo un traghetto ad Ancora per andare a Spalato non ci controlla nessuno. E negli ultimi tempi diversi servizi giornalistici hanno documentato come intere cittadine abbiano offerto ospitalità ai radicalisti islamici”.
Che dobbiamo fare come Italia?
“Continuare con il lavoro finora svolto. Cercare di capire quali sono i buchi nella sicurezza. Noi ad esempio abbiamo un gap forte sulle forze di intervento rapido della polizia. Da una parte abbiamo i Nocs, i Gis dall’altra ma sono gruppi ristretti che non possono fare il lavoro su tutto il territorio italiano. Questo sulla fattispecie “Bataclan”, quindi sulla sparatoria. I discorso degli attentati terroristici è soprattutto un lavoro forte di coordinamento di intelligence. Perché una volta che si è messo in moto l’attentato è difficilissimo fermarlo, anche se dispieghi soldati e polizia in forze. Ovviamente anche il nostro concetto di sicurezza negli aeroporti e nelle stazioni dovrà cambiare ed evolvere e in primis noi cittadini dobbiamo capire che per la nostra sicurezza dobbiamo fare una fila in più. Dobbiamo capire che anche al check-in dobbiamo fare controlli: siamo disposti?”.