Sosteneva nel diciassettesimo secolo il teologo e filosofo olandese Baruch Spinoza che la sostanza è causa di sé, con la totalità dei suoi attributi. Deve averlo letto e studiato a fondo tre secoli dopo il suo connazionale Johan Cruijff, che dell’etica della gioia applicata al calcio, il totaalvoetbal o calcio totale, è stato il profeta. Nato nell’immediato dopoguerra ad Amsterdam, città attraversata dagli innumerevoli canali che si diramano dal fiume Amstel, il piccolo Cruijff capisce subito che il gioco del calcio è un problema geometrico e di spazio: il pallone va tenuto attaccato ai piedi, i passaggi vanno fatti corti, altrimenti la palla finisce in acqua e non torna più. Rimasto orfano di padre, la madre è assunta come lavandaia nella squadra cittadina dell’Ajax, di modo che il ragazzo possa dedicarsi al pallone. E quando a soli diciannove anni in prima squadra arriva il tecnico Rinus Michels, che del calcio totale è il maggior teorico, scatta la scintilla che incendia la pietra filosofale. Nasce la leggenda di Johan Cruijff, il giocatore spinoziano.
A 14 anni vince il primo titolo giovanile con i lancieri di Amsterdam, e per i due decenni seguenti con il numero 14 incanta le platee mondiali con la maglia dell’Ajax e della nazionale orange. Cruijff cresce nell’Olanda dell’ontzuiling che negli anni Sessanta comincia l’abbattimento dei sacri pilastri in cui era divisa verticalmente la società, in nome di una più dinamica e funzionale coesione sociale. E così è anche il calcio totale che, come scrive Sandro Modeo, “è uno stile di gioco fondato sulla cooperazione e sul pensiero collettivo: uno stile la cui cadenza – basata sull’attenzione al tempo e allo spazio – orienti la squadra a prescindere dall’avversario”. Di questi cambiamenti sociali e calcistici, che precedono e accompagnano il vento di ribellione del maggio 1968, Johan Cruijff è immagine sublime. Dal 1966 al 1973 con l’Ajax vince tutto, comprese tre Coppe dei Campioni, prima di seguire a Barcellona il suo mentore Michels e con lui esportare i semi del totaalvoetbal in Catalunya.
E’ il 19 giugno 1974, al Westfalenstadion di Dortmund si sta giocando la seconda partita valida per il gruppo 3 del Mondiale di Germania 1974. In campo Olanda e Svezia. E’ il 23mo minuto e dopo un lungo possesso palla olandese la sfera finisce sui piedi di Cruijff, vicino alla bandierina del calcio d’angolo, davanti a lui il terzino destro svedese Jan Olsson: Cruijff col destro finge di mandare la palla sulla sinistra del difensore, poi con l’interno del piede si sposta la palla dietro di sé e lo brucia passandolo sulla destra. E’ il tocco Cruijff, il marchio di fabbrica del campione. La partita finirà 0-0 e quel Mondiale l’Olanda lo perderà in finale contro i padroni di casa della Germania Ovest. Ma il numero 14 olandese, già chiamato il Pelé bianco o, come dal titolo di un documentario di qualche anno dopo di Sandro Ciotti “Il Profeta del Gol”, è nella storia. A fine anno vince il suo terzo Pallone d’Oro. Al Mondiale di Argentina 1978, dove l’Olanda ancora perde in finale contro i padroni di casa, Cruijff non c’è: è rimasto a casa per protesta contro la sanguinaria dittatura fascista della Junta Militar di Videla. Il maggio 1968 per lui non è mai finito.
Non finisce nemmeno quando, appese le scarpe al chiodo dopo aver giocato anche con il Levante, il Feyenoord, negli Stati Uniti e un Mundialito con la maglia del Milan, diventa allenatore. La sua idea di calcio è utopica, parafrasando Karl Marx ognuno in campo deve quel che può e ricevere quello di cui ha bisogno. Giocatore totale in campo, lo è anche sulla panchina del Barcellona, con cui vince nuovamente tutto. “Sul campo è importante dare libertà ai giocatori, anche se all’interno di uno schema. Quello che conviene insegnare ai ragazzi è il divertimento, il tocco di palla, la creatività, l’invenzione. La creatività non fa a pugni con la disciplina”. E’ il suo manifesto. In Italia troppo a lungo è stato ricordato come l’allenatore arrogante che alla guida di un Barcellona fortissimo (Koeman, Guardiola, Bakero, Romario e Stoichkov tra gli altri) ha perso 4-0 una finale di Coppa dei Campioni contro il Milan pragmatico e utilitarista di Fabio Capello. Eppure è proprio nell’idea del gioco come utopia, mai schiavo del risultato e della vittoria, di un calcio dove “Alla radice di tutto c’è che i ragazzini si devono divertire a giocare”, che risiede il grande insegnamento del profeta olandese. Un’estetica pura, dove ancora risuona l’eco di Spinoza e di ogni cosa del mondo che è bella in sé, in quanto utile, al di là dei canoni estetici dominanti. Un’estetica che porta alla libertà. A quel campo di calcio immaginato come piano d’immanenza, dove tutto scorre e tutto è pura gioia. Al di là del risultato.