“Cosa farò in futuro? Non ne ho idea in questo momento. È difficile anche solo andare all’estero. Ma la mia posizione non è nemmeno lontanamente la più in pericolo. Alcuni colleghi sono stati costretti per precauzione a lasciare l’ateneo dove insegnavano. E ancora non si sentono sicuri”. La Turchia non è un Paese per accademici. B., una ricercatrice che non può rivelare il suo nome per paura di ripercussioni, vive in costante contatto con la sua legale: teme che da un giorno all’altro anche lei possa finire in carcere. L’accusa “possibile” è aver firmato la petizione uscita l’11 gennaio 2016, intitolata “Non saremo parte di questo crimine!”, in cui si chiede al governo di fermare gli attacchi contro i curdi e gli arresti dei dissidenti politici. Il governo turco la considera propaganda pro terroristi. Il gruppo che l’ha proposta, il quale ha avuto grande risonanza internazionale, si chiama Accademici per la pace. Non tutti sono attivisti pro Kurdistan. Anzi, molti sono critici con loro: il movimento al suo interno contiene diverse posizioni, accomunate solo dalla ricerca di pace. Ma non sembra interessare al governo.
Gli ultimi a finire dietro le sbarre sono stati il 15 marzo Esra Mungan (psicologa all’università Boğaziçi), Muzaffer Kaya (scienziato politico dell’università Nişantaşı) e Kıvanç Ersoy (matematico dell’università Mimar Sinan). Il 18 marzo in sostegno di Mungan è stata organizzata dai membri della sua facoltà una manifestazione per chiederne la liberazione. Un quarto, l’informatico dell’università Bilgi Chris Stephenson, britannico che da 25 anni vive ad Istanbul, è stato solo fermato e portato nel centro di detenzione di Kumkapi, poi è stato costretto a lasciare il Paese. Tra due mesi sarebbe andato in pensione.
L’offensiva contro il gruppo Accademici per la pace è imponente: su 2.212 firmatari (a gennaio, quando la petizione è uscita erano 1.128), in 669 sono sotto indagine. “Come può un governo arrestare oltre 2mila persone – si chiede B. – ma abbiamo paura che possa toccare ad uno qualunque di noi”. Lo scrivono anche gli Accademici per la pace in una nota interna che informava gli aderenti della sorta dei loro tre colleghi: “Non sarebbe strano se tutti venissimo colpiti allo stesso modo”. Le prove sono evidenti: professori a contratto dall’oggi al domani hanno perso il posto.
D’altronde il presidente Recep Tayyip Erdogan li ha accomunati ai terroristi: “Non c’è differenza tra un terrorista che imbraccia un’arma e coloro che usano i loro titoli e lo loro penne per sostenerli. Queste persone che sono state arrestate dalle forze di sicurezza per il sostegno che danno alle organizzazioni dei terroristi non possono entrare in una corte di giustizia da una porta ed uscire da un’altra”. Non tutto il mondo accademico è con gli Accademici per la pace. C’è chi ha creato un gruppo opposto, gli Accademici per la Turchia: la sostengono 2.071 professori, soprattutto teologi. Il gruppo sostiene gli interventi militari del governo turco nell’est del Paese.
Nell’ordine di cattura che riguarda gli ultimi quattro professori, si fa un sillogismo che i firmatari considerano folle. Siccome il 22 dicembre 2015 il dirigente curdo del Partito comunista dei lavoratori (illegale in Turchia) Bese Hozat ha detto che “gli intellettuali e i poteri democratici dovrebbero sostenere le loro regole” e 20 giorni dopo gli Accademici per la pace sono usciti con la loro petizione, allora “le due dichiarazioni sono parallele”, come ha scritto il procuratore che ha in mano l’indagine. Ragione sufficiente per considerare i quattro alla stregua di aderenti al Pkk.
Chi sono le persone più in pericolo? È questa la domanda che circola tra i firmatari della petizione di Accademici per la pace. Laureata in Economia politica, B. ha un profilo certamente a rischio. Ha studiato le forme di autogoverno che si sono sviluppate in Turchia, i movimenti di protesta (ultimo Gezi Park, di cui lei ha fatto parte fin dalla prima ora). Ha una forte rete di contatti in Kurdistan, dove si muove spesso. Paradossalmente, il suo vantaggio rispetto ad altri colleghi è l’essere precaria: “Non sappiamo se sono le università a segnalare gli accademici contro il governo – racconta – io non insegno stabilmente in una sola università”.
A testimonianza del clima che si respira negli atenei turchi, nell’università Boğaziçi, dove la ricercatrice ha studiato, il 26 febbraio è stata trovata un’automobile abbandonata con una bomba al suo interno, ma priva di miccia per innescare l’esplosione. È stato il momento di tensione maggiore dall’inizio dell’escalation contro gli universitari, il 12 gennaio, giorno della bomba a Sultanahmet costata a vita a 10 turisti tedeschi. È da allora che tutto è cominciato. “Ciò che mi rende più triste è che se domani organizzassimo una manifestazione in piazza scenderebbero in pochissimi”, aggiunge B.
In fondo il circolo di persone che si oppone è sempre lo stesso. Anche gli avvocati che si prendono l’onere di portare in un aula giudiziaria questi casi sono facilmente rintracciabili. I legali sono spesso vittime di retate: il 16 marzo, 47 persone sono finite in arresto con l’accusa di essere vicine al Pkk. Molti di loro sono avvocati. Arif Ali Cangi è il loro difensore in aula. Negli anni è stato uno dei principali difensori dei movimenti ambientalisti, vicino ad universitari e ambienti della sinistra che si oppone ad Erdogan. Conosce diversi accademici: “Ormai non c’è più opposizione nemmeno nei piccoli comuni – racconta – la si fa solo nelle aule giudiziarie, ma i giudici subiscono una pressione indiretta talmente forte che si autocensurano”. “Spero che la prossima volta non dobbiate venirmi a trovare in carcere”, dice accennando un sorriso, prima di andarsene.
Mondo
Turchia, governo contro “Accademici per la pace”: su 2.212 firmatari 669 sotto indagine. “Molti docenti costretti a lasciare”
Si intensifica la stretta delle autorità sul gruppo di docenti universitari che hanno firmato la petizione uscita l'11 gennaio 2016, intitolata “Non saremo parte di questo crimine!”, in cui si chiede al governo di fermare gli attacchi contro i curdi nel sud del Paese e gli arresti dei dissidenti politici: il governo la considera propaganda pro terroristi. A testimonianza del clima che si respira negli atenei, nell'università Boğaziçi, il 26 febbraio è stata trovata un'auto con una bomba disinnescata al suo interno
“Cosa farò in futuro? Non ne ho idea in questo momento. È difficile anche solo andare all’estero. Ma la mia posizione non è nemmeno lontanamente la più in pericolo. Alcuni colleghi sono stati costretti per precauzione a lasciare l’ateneo dove insegnavano. E ancora non si sentono sicuri”. La Turchia non è un Paese per accademici. B., una ricercatrice che non può rivelare il suo nome per paura di ripercussioni, vive in costante contatto con la sua legale: teme che da un giorno all’altro anche lei possa finire in carcere. L’accusa “possibile” è aver firmato la petizione uscita l’11 gennaio 2016, intitolata “Non saremo parte di questo crimine!”, in cui si chiede al governo di fermare gli attacchi contro i curdi e gli arresti dei dissidenti politici. Il governo turco la considera propaganda pro terroristi. Il gruppo che l’ha proposta, il quale ha avuto grande risonanza internazionale, si chiama Accademici per la pace. Non tutti sono attivisti pro Kurdistan. Anzi, molti sono critici con loro: il movimento al suo interno contiene diverse posizioni, accomunate solo dalla ricerca di pace. Ma non sembra interessare al governo.
Gli ultimi a finire dietro le sbarre sono stati il 15 marzo Esra Mungan (psicologa all’università Boğaziçi), Muzaffer Kaya (scienziato politico dell’università Nişantaşı) e Kıvanç Ersoy (matematico dell’università Mimar Sinan). Il 18 marzo in sostegno di Mungan è stata organizzata dai membri della sua facoltà una manifestazione per chiederne la liberazione. Un quarto, l’informatico dell’università Bilgi Chris Stephenson, britannico che da 25 anni vive ad Istanbul, è stato solo fermato e portato nel centro di detenzione di Kumkapi, poi è stato costretto a lasciare il Paese. Tra due mesi sarebbe andato in pensione.
L’offensiva contro il gruppo Accademici per la pace è imponente: su 2.212 firmatari (a gennaio, quando la petizione è uscita erano 1.128), in 669 sono sotto indagine. “Come può un governo arrestare oltre 2mila persone – si chiede B. – ma abbiamo paura che possa toccare ad uno qualunque di noi”. Lo scrivono anche gli Accademici per la pace in una nota interna che informava gli aderenti della sorta dei loro tre colleghi: “Non sarebbe strano se tutti venissimo colpiti allo stesso modo”. Le prove sono evidenti: professori a contratto dall’oggi al domani hanno perso il posto.
D’altronde il presidente Recep Tayyip Erdogan li ha accomunati ai terroristi: “Non c’è differenza tra un terrorista che imbraccia un’arma e coloro che usano i loro titoli e lo loro penne per sostenerli. Queste persone che sono state arrestate dalle forze di sicurezza per il sostegno che danno alle organizzazioni dei terroristi non possono entrare in una corte di giustizia da una porta ed uscire da un’altra”. Non tutto il mondo accademico è con gli Accademici per la pace. C’è chi ha creato un gruppo opposto, gli Accademici per la Turchia: la sostengono 2.071 professori, soprattutto teologi. Il gruppo sostiene gli interventi militari del governo turco nell’est del Paese.
Nell’ordine di cattura che riguarda gli ultimi quattro professori, si fa un sillogismo che i firmatari considerano folle. Siccome il 22 dicembre 2015 il dirigente curdo del Partito comunista dei lavoratori (illegale in Turchia) Bese Hozat ha detto che “gli intellettuali e i poteri democratici dovrebbero sostenere le loro regole” e 20 giorni dopo gli Accademici per la pace sono usciti con la loro petizione, allora “le due dichiarazioni sono parallele”, come ha scritto il procuratore che ha in mano l’indagine. Ragione sufficiente per considerare i quattro alla stregua di aderenti al Pkk.
Chi sono le persone più in pericolo? È questa la domanda che circola tra i firmatari della petizione di Accademici per la pace. Laureata in Economia politica, B. ha un profilo certamente a rischio. Ha studiato le forme di autogoverno che si sono sviluppate in Turchia, i movimenti di protesta (ultimo Gezi Park, di cui lei ha fatto parte fin dalla prima ora). Ha una forte rete di contatti in Kurdistan, dove si muove spesso. Paradossalmente, il suo vantaggio rispetto ad altri colleghi è l’essere precaria: “Non sappiamo se sono le università a segnalare gli accademici contro il governo – racconta – io non insegno stabilmente in una sola università”.
A testimonianza del clima che si respira negli atenei turchi, nell’università Boğaziçi, dove la ricercatrice ha studiato, il 26 febbraio è stata trovata un’automobile abbandonata con una bomba al suo interno, ma priva di miccia per innescare l’esplosione. È stato il momento di tensione maggiore dall’inizio dell’escalation contro gli universitari, il 12 gennaio, giorno della bomba a Sultanahmet costata a vita a 10 turisti tedeschi. È da allora che tutto è cominciato. “Ciò che mi rende più triste è che se domani organizzassimo una manifestazione in piazza scenderebbero in pochissimi”, aggiunge B.
In fondo il circolo di persone che si oppone è sempre lo stesso. Anche gli avvocati che si prendono l’onere di portare in un aula giudiziaria questi casi sono facilmente rintracciabili. I legali sono spesso vittime di retate: il 16 marzo, 47 persone sono finite in arresto con l’accusa di essere vicine al Pkk. Molti di loro sono avvocati. Arif Ali Cangi è il loro difensore in aula. Negli anni è stato uno dei principali difensori dei movimenti ambientalisti, vicino ad universitari e ambienti della sinistra che si oppone ad Erdogan. Conosce diversi accademici: “Ormai non c’è più opposizione nemmeno nei piccoli comuni – racconta – la si fa solo nelle aule giudiziarie, ma i giudici subiscono una pressione indiretta talmente forte che si autocensurano”. “Spero che la prossima volta non dobbiate venirmi a trovare in carcere”, dice accennando un sorriso, prima di andarsene.
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Washington, 1 feb. (Adnkronos) - La scatola nera dell'elicottero coinvolto nella tragedia aerea di Washington sono state recuperate e non appaiono danneggiate, ha reso noto un portavoce del National Transportation Safety Board. L'elicottero ha una sola scatola nera, con la registrazione delle voci della cabina e dei dati di volo.
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - "Altri 43 migranti tornano in Italia dai centri in Albania. Presidente Meloni, errare è umano, perseverare è diabolico. Quanti altri viaggi a vuoto dovremo vedere prima che si metta fine a questa pagliacciata costosa per i contribuenti?”. Così Matteo Ricci, europarlamentare Pd, in un post sui social.
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - "Terzo flop del ‘modello Albania’: la Corte d’Appello di Roma smonta l’ennesima trovata propagandistica del governo Meloni, sospendendo i trattenimenti e disponendo il trasferimento in Italia dei migranti deportati. Per la terza volta, la destra ha provato a forzare la mano e per la terza volta è stata bocciata. Hanno sprecato milioni di euro pubblici, violato diritti fondamentali e messo in piedi un’operazione disumana, solo per alimentare la loro propaganda. Un fallimento su tutta la linea, mentre il Paese affonda tra tagli alla sanità, precarietà e crisi sociale. Ora che farà Meloni? Toglierà la competenza anche alle Corti d’Appello per accentrarla a Palazzo Chigi?”. Così Alessandro Zan, responsabile Diritti nella segreteria nazionale Pd ed europarlamentare.
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - "La Corte d’Appello di Roma libera di nuovo immigrati irregolari per i quali potevano essere eseguite rapidamente le procedure di rimpatrio e rimette ancora la palla alla Corte di Giustizia Europea sulla questione dei Paesi sicuri. Le ordinanze che non convalidano i trattenimenti nel centro in Albania e che rimettono alla Corte di Giustizia la questione pregiudiziale, insistono sull’individuazione in via generale ed astratta dei “paesi sicuri”, ripercorrendo le motivazioni delle decisioni precedenti, senza giudicare delle posizioni dei singoli migranti. Peccato che la Corte di Cassazione ha ampiamente chiarito, lo scorso dicembre, che questa è una competenza del Governo e non della magistratura. Incredibile che la Corte d’Appello di Roma abbia considerato irrilevante questo principio e insista nel voler riconoscere ai singoli magistrati un potere che è esclusiva prerogativa dello Stato”. Lo dichiara la deputata di Fratelli d’Italia, Sara Kelany, responsabile del Dipartimento immigrazione.
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - "Non stupisce la decisione della Corte d’Appello di Roma di bloccare, per l’ennesima volta, una misura, tra l’altro apprezzata anche in Europa, con cui l’Italia vuole fronteggiare l’immigrazione massiccia e garantire la sicurezza nazionale. I magistrati non usino il loro potere per contrastarne un altro, riconosciuto dalla costituzione e legittimato dagli italiani”. Lo dichiara il deputato della Lega Igor Iezzi.
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - “La Corte d’Appello di Roma libera ancora dei migranti irregolari che potevano essere rapidamente rimpatriati, rimandando di nuovo alla Corte di Giustizia Europea sulla questione dei paesi sicuri. Ma la Corte di Cassazione aveva chiarito che questa è una competenza del Governo. Evidentemente alcuni tribunali italiani considerano irrilevanti i principi fissati dalla Suprema Corte. Di fronte a questo non posso che esprimere profondo stupore". Lo dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan.
Roma, 31 gen. (Adnkronos) - “E anche oggi si certifica il fallimento di Meloni. I Centri per i migranti in Albania non sono la risposta al fenomeno migratorio, che richiede rispetto per i diritti umani e condivisione delle responsabilità a livello europeo. Nei comizi Meloni potrà continuare a dire che fun-zio-ne-ran-no ma nella realtà sono solo uno spreco immane di risorse. Se quei fondi fossero stati spesi per assumere infermieri e medici, o per aumentare gli stipendi di quelli che già lavorano nella sanità pubblica, allora si’ che sarebbero stati utili agli italiani!”. Così in una nota Marina Sereni, responsabile Salute e sanità nella segreteria nazionale del Pd.