I 198 grandi elettori che domani (oggi per chi legge, ndr) dovranno scegliere il nuovo presidente della Confindustria tra Alberto Vacchi e Vincenzo Boccia sono chiamati in realtà a un referendum su uno dei più scandalosi conflitti d’interessi del pur eticamente svantaggiato capitalismo italiano. Lo scandalo di cui tutti gli imprenditori parlano solo sottovoce si incarna nel corpo cinquantenne di Emma Marcegaglia, imprenditrice mantovana una e trina: ex numero uno di Confindustria, attuale presidente dell’Eni e titolare al 50 per cento con il fratello Antonio, di uno dei maggiori gruppi siderurgici italiani. Grande industriale privata e grande boiardo di Stato al tempo stesso, Marcegaglia sta spendendo tutte le sue capacità d’influenza sui colleghi per issare sulla preziosa poltrona confindustriale l’amico salernitano Boccia, imprenditore lillipuziano in confronto a Vacchi, ma avvezzo ai corridoi di viale dell’Astronomia. Il clima è quello del duello all’ultimo sangue, come dimostrano le lettere con cui alcuni sostenitori di Vacchi sono arrivati a formalizzare con i cinque “saggi” la perentoria richiesta di garantire l’effettiva segretezza del voto.
Dicono i maligni che per Marcegaglia sia decisivo perpetuare, attraverso un presidente amico se non addirittura vassallo, il controllo sul Sole 24 Ore che esercita da otto anni, i quattro della sua presidenza e i quattro dell’amico Giorgio Squinzi, presidente uscente. Il prestigioso quotidiano economico infatti ha due poteri magici: certifica le verità delle notizie finanziarie e intimorisce banchieri e manager. Il combinato disposto dei due poteri magici che Marcegaglia è in grado di esercitare per interposte persone determina a sua volta due effetti: il mantenimento di una sorta di segreto di Stato sull’esplosivo indebitamento del gruppo Marcegaglia; una certa remissività dei maggiori banchieri italiani quando devono trattare con uno dei loro debitori in maggiore difficoltà. A questo si aggiunga, per fare buon prezzo, che la signora di Mantova entra in banca con due cappelli, quello della debitrice alle corde e quello della presidente dell’Eni, cioè di un cliente da sogno per ogni banchiere.
Così è passata quasi sotto silenzio la notizia che una ventina di giorni fa, lo scorso 8 marzo, il gruppo Marcegaglia ha “rinegoziato” con un pool di 12 grandi banche italiane, guidate da Unicredit, Intesa e Montepaschi, un finanziamento da 492 milioni. Detta così, infatti, la notizia lascia il tempo che trova. Assume invece tutt’altro significato se la si correda dei dettagli che la grande stampa italiana occulta da mesi. Il gruppo Marcegaglia ha 2,1 miliardi di debiti con le banche e di questi 1,8 miliardi erano a breve termine. In sé, a fronte di un fatturato di 4 miliardi, non sarebbe un debito insostenibile. La cosa preoccupa perché il momento dell’acciaio è critico e perché avere 1,8 miliardi di debiti a breve termine su 2,1 totali è come avere una flotta di Tir che viaggiano con motori a benzina Ferrari. Infatti l’operazione dell’8 marzo altro non è stata che la conversione di 492 milioni di debiti da breve a medio termine. Adesso i debiti a medio-lungo sono 800 milioni, quelli a breve 1,3 miliardi.
Un rapporto ancora squilibrato che però le grandi banche non sono in grado di affrontare. Per ristrutturare un debito occorrerebbe che l’azienda metta in campo risorse per un rafforzamento patrimoniale. Finora tutto ciò che le banche hanno ottenuto è che i fratelli Marcegaglia si siano rassegnati a dare garanzie personali (immobili e altro) quando gli è stato spiegato che i capannoni degli impianti siderurgici non rappresentano più una base sufficientemente solida per un debito così vasto. Ma il grande bubbone rimane lì. Le banche hanno il terrore che si ripeta il copione del caso Sorgenia. Lì è stata la famiglia De Benedetti, forte del controllo di Repubblica, che ha potuto mollare alle banche creditrici, attonite e silenziose, le azioni della società elettrica con i suoi 2 miliardi di debiti.
Difficile credere che Unicredit, Intesa, Montepaschi, Bnl, Banco Popolare e le altre finiranno per trovarsi azioniste del gruppo Marcegaglia come si sono trovate proprietarie di Sorgenia. Però il caso è di molto difficile soluzione, anche per le imbarazzanti concatenazioni politiche della vicenda. Emma Marcegaglia è stata direttamente voluta da Matteo Renzi alla presidenza dell’Eni perché giovane e donna e anche (gli avranno fatto credere) imprenditrice di successo. Adesso il gruppo Marcegaglia è indicato come candidato in pole position per il salvataggio dell’Ilva di Taranto, di cui peraltro, a proposito di conflitto d’interessi, è grande cliente. Non è un caso che da mesi sia in corso, da parte delle banche creditrici, una sotterranea moral suasion nei confronti di Palazzo Chigi per veicolare prudentemente il messaggio che il gruppo Marcegaglia è finanziariamente unfit a salvare l’Ilva.
Nel momento in cui venisse al pettine il nodo dei debiti della famiglia mantovana il mondo industriale italiano si riempirebbe di schizzi fangosi incompatibili uno con l’altro: addio salvataggio dell’Ilva, addio presidenza dell’Eni, nuova figura barbina per l’autolottizzatore di Rignano. Per fronteggiare questa emergenza sarebbe preziosa una netta vittoria di Boccia. La signora di Mantova avrebbe in mano la dimostrazione che i maggiori industriali temono ancora lei e i suoi lobbisti. E i banchieri sarebbero costretti a trovare una soluzione che non sia penalizzante per le ambizioni personali di Emma Marcegaglia e per le magnifiche sorti e progressive del renzismo.
Da Il Fatto Quotidiano del 30 marzo 2016