Dopo i tagli alle prestazioni “non necessarie”, il governo va avanti nella “privatizzazione” di fatto del sistema sanitario nazionale. Con la prospettiva per i cittadini che curarsi diventerà più caro a tutto vantaggio delle compagnie assicurative che già sfornano una miriade di polizze vita e salute. Il segnale più evidente è nel calo della spesa sanitaria italiana, che ha toccato il livello più basso degli ultimi dieci anni (il 6,6% del pil), relegando l’Italia al terzultimo posto fra i Paesi Ocse. “La contrazione della spesa pubblica – spiega Costantino Troise, segretario dell’Anaao Assomed, associazione nazionale medici e dirigenti del servizio sanitario nazionale – spinge inevitabilmente i pazienti fra le braccia dei privati. Se il servizio pubblico non funziona o è lento, il cittadino che ha bisogno di curarsi finisce per pagare di tasca propria”.
La situazione è insomma assai delicata. E la responsabilità è in parte del fallimento dei commissariamenti della sanità nelle Regioni in rosso, principalmente nel Sud: a sette anni dall’inizio della gestione speciale, il bilancio per il sistema di risanamento è negativo e i pazienti ne fanno le spese. Non è bastato far “gestire i piani di rientro a ‘tecnici’ nominati dal governo di turno” perché si sono limitati “ad applicare la solita ricetta, più tasse, più tagli, più ticket”, come evidenzia l’Anaao che chiede al governo una più ampia riflessione sulla sanità pubblica. Risultato: negli anni è aumentata la mobilità dei pazienti, soprattutto dal Sud verso il Nord e si sono allungate le liste d’attesa. Intanto la qualità dei servizi per i cittadini è nettamente peggiorata assieme ai conti delle Regioni “poco virtuose” che ricevono proporzionalmente meno denaro dal Fondo sanitario nazionale. Non a caso la Commissione Salute della Conferenza Stato-Regioni sta studiando come limitare la “mobilità” sanitaria che registra un continuo e progressivo aumento dei pazienti del Sud che decidono di farsi curare al Nord. Lo scorso anno ben 500mila persone hanno fatto le valigie per curarsi al Nord con picchi come la Calabria dove nel 2015, il conto per i trattamenti medici “fuori porta” dei calabresi è salito di 40 milioni alla cifra record di 290 milioni. Un fatto che sta mettendo a dura prova i conti degli enti locali dove la spesa sanitaria è la voce più rilevante.
Così per mettere una toppa ai buchi di bilancio, le Regioni del Mezzogiorno, Campania in testa, hanno pensato di proporre la modifica dei criteri di riparto del Fondo sanitario nazionale (111 miliardi nel 2015). Secondo gli enti meridionali, oltre all’anzianità della popolazione, bisognerebbe tenere in debito conto anche l’inquinamento dei territori che comporta maggiori oneri a carico del Servizio sanitario nazionale. Le regioni del Mezzogiorno sperano così di spuntare maggiori risorse finanziarie pubbliche per far quadrare i conti. Il problema però è che una simile operazione andrebbe evidentemente a danno di altre aree che hanno un “saldo positivo” di pazienti. Ma che comunque hanno problematiche irrisolte sotto il profilo degli equilibri finanziari delle strutture pubbliche. Se è vero infatti che la Lombardia macina profitti nella sanità privata, è anche vero che langue in quella pubblica. Basti pensare che il Niguarda, il più importante ospedale pubblico della regione, ha chiuso l’esercizio in perdita per oltre 35 milioni in scia a buona parte delle più rilevanti strutture statali della regione.
Eppure proprio in Lombardia i privati fanno affari d’oro: nel 2014 il gruppo San Donato ha fatturato 1,387 miliardi di euro. La redditività dell’azienda, proprietaria di 17 ospedali fra cui il Policlinico di San Donato e il San Raffaele, è stata pari al 12,7% del giro d’affari generando in quattro anni (2010-2014) un aumento degli utili di 27,6 milioni. Inoltre il San Donato è solo la punta di diamante di un sistema privato che nella sanità produce profitti ormai da anni. Secondo uno studio di Mediobanca, nel 2014 i primi cinque gruppi ospedalieri italiani hanno intascato 85 milioni di utili, quasi il doppio rispetto all’anno prima: il San Donato dei Rotelli, l’Humanitas dei Rocca, la GVM-Gruppo villa Santa Maria dei Sansavini, la Servisan dei De Salvo e lo IEO-Istituto europeo di oncologia, fondato da Umberto Veronesi e controllato dalla triade Mediobanca-Unicredit-Unipol, hanno fatturato 2,86 miliardi, ben 700 milioni in più rispetto al 2010. Merito del fatto che queste cinque strutture hanno a disposizione 10.144 posti letto, quasi tutti accreditati con il servizio nazionale. “Senza fare di tutta l’erba un fascio, i privati riescono a fare utili perché fanno dumping sul costo del lavoro con una qualità dei servizi che è tutta da verificare”, contesta Troise. Per non tacere casi gravissimi emersi proprio in Lombardia come quello della Clinica Santa Rita dove venivano effettuati interventi inutili solo per ottenere i rimborsi dal servizio sanitario nazionale.
In un certo senso, dalla situazione finanziaria delle strutture pubbliche e private lombarde arriva la prova di una progressiva “privatizzazione” della sanità che si manifesta, secondo l’Anaao, con la progressiva contrazione del ruolo del pubblico in nome del risanamento dei conti. “Invece di rifugiarsi in luoghi comuni – conclude il segretario dell’Anaao Assomed – la politica deve pronunciarsi sulla volontà o meno di garantire i livelli essenziali di assistenza in maniera omogenea, declinando il diritto alla salute allo stesso modo in tutta l’Italia Deve impegnare risorse a garanzia della sostenibilità di un settore in cui l’ampliamento dell’intervento dei privati vede anche la partecipazione dello Stato che scommette contro se stesso, investendo nella sanità privata i soldi dei libretti postali”. Il riferimento è alla scelta del fondo F2i, partecipato dalla Cassa Depositi e Prestiti: il braccio finanziario dello Stato ha recentemente investito nel gruppo delle residenze per anziani Kos, di proprietà della famiglia De Benedetti. Evidentemente, viste le prospettive della sanità pubblica, a via Goito devono aver pensato che si trattasse di un buon affare.