“Balzello odioso che si copre dietro le nobili bandiere del servizio pubblico”; “tassa detestabile, ingiustificata e medioevale”; “tassa che non si vuole nemmeno chiamare tassa”. Queste, sul Corriere della Sera del 18 aprile, le definizioni che Pierluigi Battista, uomo peraltro garbato, affibbia al canone. La ragione della furia è che il canone fa esistere la Rai perché i politici minori possano parlarne e sparlarne e farsi notare. Del resto, neanche a noi che il promo di Riina Junior non lo avremmo confezionato, è piaciuto che le Commissione di Vigilanza e Antimafia convocassero l’Amministratore e il Direttore editoriale della Rai per rampognarli sull’accaduto. Distogliendoli dal tanto lavoro che resta loro da fare.
Ma poi Battista emula lui stesso quel che critica inanellando una serie di affermazioni sommarie. La prima è che il canone serve a “favorire la Rai a scapito dei concorrenti -e che- la libera competizione tra soggetti che legittimamente si contendono il servizio pubblico viene alterata”. E qui trascura che da trenta anni beneficiario del canone è il duopolio a trazione Mediaset, e non la Rai, che è stata tenuta lì a ostruire l’ingresso agli estranei e con la pubblicità in misura astutamente ridotta, giusto per non interferire col dominio di mercato del Biscione. Detto questo, è obbligatorio e urgente, ora che il Duopolio politico-aziendale ha perso finalmente il primo corno, che nelle casse Rai si faccia chiarezza e si evitino le sovvenzioni improprie.
La seconda affermazione, è che “non si vede perché le altre aziende televisive che trasmettono gli stessi programmi della Rai e che fanno servizio pubblico come e anche più della Rai, debbano essere escluse dalla regalia di Stato”. Tanto più, soggiunge Battista, che questo “servizio pubblico” nessuno, nemmeno la Rai, sa definirlo. Ma la notizia, per Battista e per i tanti che lo condividono, è che invece i grandi Paesi europei, a partire dalla mitica Gran Bretagna, cos’è e a cosa serve il Servizio Pubblico e il canone lo sanno benissimo, nonostante che anche lì i programmi dei canali pubblici e privati si assomiglino fortemente. Perché, questo è il punto, il “Servizio Pubblico” non è una linea di contenuti editoriali, ma il regista strategico della industria creativa nazionale; e il canone non è una sovvenzione ma l’investimento indispensabile per dare al mercato interno quel tanto di dimensione che gli permetta di affacciarsi all’estero e allargare l’occupazione. E a questa funzione va recuperato, anche da noi, a duopolio sotterrato.
Se anche Battista ci terrà sopra l’occhio, lasciando a Salvini le vecchie solfe, magari tutti questi cambiamenti avverranno davvero e con la fretta che serve, mentre tutti stiamo qui ad aspettare.