di Alberto Piccinini *
Come è noto l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori fino a meno di quattro anni fa prevedeva il diritto alla reintegrazione in tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo per i dipendenti di datori di lavoro con più di 15 dipendenti.
Nel luglio del 2012 la legge Fornero ha modificato fortemente la norma, consentendo la reintegrazione per le ipotesi di illegittimità più gravi (licenziamento discriminatorio, ritorsivo, per causa di maternità o matrimonio, motivo illecito) limitandola a specifiche ipotesi per il licenziamento disciplinare (solo se il fatto contestato risulta insussistente, o se per quel fatto il contratto collettivo prevede una sanzione minore, conservativa del rapporto di lavoro) e a casi ancora più rari per il licenziamento cosiddetto economico (manifesta insussistenza del motivo). Per le altre ipotesi di illegittimità del licenziamento sono previste indennità economiche da 12 a 24 mensilità, secondo parametri di valutazione del caso concreto affidati al giudice. Favorire la “monetizzazione”, da parte del governo Monti, rispondeva ad esigenze di gestione dell’impresa: un imprenditore deve conoscere con esattezza le conseguenze delle sue scelte, ed in questo caso anche il costo delle sue scelte illecite.
È venuta così meno, dopo più di quaranta anni di applicazione, la norma motivatamente definita “il diritto dei diritti”, che aveva presidiato la dignità nei luoghi di lavoro, con efficacia dissuasiva nei confronti di possibili abusi.
Ma la legge Fornero lascia ancora aperti degli spazi per ottenere il ripristino del rapporto, che i giudici hanno utilizzato in alcune ipotesi di licenziamenti disciplinari sproporzionati e perfino per (finti) motivi economici. Inoltre le indennità economiche alternative alla reintegrazione non sono modeste, costituendo, quindi, un parziale deterrente ad un uso improprio del potere di licenziare.
Con il Jobs Act il governo Renzi si è sentito perciò in dovere di rassicurare ancora di più i datori di lavoro: per i cosiddetti contratti “a tutele crescenti”, applicabili a tutti gli assunti a tempo indeterminato dopo il 7 marzo 2015, in caso di licenziamento illegittimo viene imposto al giudice di applicare la regola (con veramente scarse eccezioni) di un indennizzo economico fisso e basso. Spacciati come estensione di tutele ai precari, in realtà tali contratti hanno precarizzato definitivamente i nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato.
L’aumento di occupati a tempo indeterminato nell’ultimo trimestre del 2015 è però da imputarsi a un diverso, parallelo dono renziano agli imprenditori, fatto di moneta sonante: la previsione – da parte di un’altra legge, quella cosiddetto “di stabilità” – di forti sgravi contributivi fino al 31 dicembre 2017 per tutte le assunzioni effettuate entro il 31 dicembre 2015. Si è trattato quindi di una crescita “drogata”, dal futuro incerto ma con l’effetto certo di schiavizzare definitivamente chi è costretto a vendere il proprio lavoro per sopravvivere.
In questo contesto si inserisce la proposta di legge di iniziativa popolare Cgil denominata Carta dei diritti universali del lavoro di cui si è già parlato in questo blog che, nell’ambito di un’ambiziosa riforma globale per uniformare il mondo del lavoro, si occupa anche dell’art. 18, estendendo le nuove garanzie a tutti i lavoratori, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati. La reintegrazione torna ad essere al centro del sistema sanzionatorio del licenziamento illegittimo, con alcune agevolazioni a favore dei datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti, per certi licenziamenti disciplinari o nell’ipotesi di un vizio di sola forma: in questi casi il giudice può consentire al datore di monetizzare il licenziamento ma con un’indennità non inferiore a 20 mensilità. In caso di licenziamento per motivo oggettivo, la reintegra è prevista se non sussistono ragioni poste a base del licenziamento, mentre viene lasciata al giudice la facoltà di scegliere tra la reintegrazione o la condanna a un’indennità risarcitoria da 12 a 48 mensilità (che per i datori con meno di 10 dipendenti diventa da 6 a 36) in presenza della possibilità di adibire il licenziando a diverse mansioni.
Firmando per la proposta di legge della Cgil è possibile anche promuovere tre referendum “sociali”: uno sul lavoro accessorio, un altro in tema di responsabilità solidale negli appalti ed un terzo per la tutela nei licenziamenti. Con quest’ultimo verrebbe, innanzitutto, abrogato il decreto legislativo sulle tutele crescenti “nella sua interezza”, e ripristinato un testo semplice, pulito, coerente.
Il “nuovo articolo 18” risulterebbe come prima del 2012 ma… meglio di prima, estendendo la tutela reintegratoria, in caso di licenziamento illegittimo, ai datori di lavoro sopra i 5 (e non più 15) dipendenti. E il referendum, rispetto alla legge di iniziativa popolare, potrebbe avere tempi più brevi e persino – viste le attuali maggioranze parlamentari – maggiori possibilità di successo: con la nuova riforma costituzionale in cantiere, se venissero raccolte 800.000 firme, il quorum si abbatterebbe al 50% dei cittadini che hanno partecipato alle ultime elezioni politiche anziché degli aventi diritto al voto.
Considerando che delle nuove garanzie potrebbero usufruire anche i lavoratori assunti con gli sgravi contributivi dopo il 7 marzo 2015 (gli ex precari ai quali era stata promessa una situazione di lavoro stabile con l’ingannevole contratto a tutele crescenti) la vittoria del referendum farebbe “crescere”, in particolare per loro, una vera tutela!
* Sono avvocato giuslavorista a Bologna, dalla parte dei lavoratori. Ho scritto numerosi articoli in riviste specializzate e qualche libro in materia di licenziamenti e di comportamento antisindacale (oltre a un paio di romanzi e una raccolta di racconti).