“Il Cipe (comitato interministeriale per la programmazione economica), riunitosi a Palazzo Chigi, ha approvato lo stanziamento di 2,5 miliardi per la ricerca e di un miliardo per i beni culturali italiani”. Lo aveva annunciato più volte Matteo Renzi (l’ultima venerdì sera in conferenza stampa da Palazzo Chigi) e così la notizia è stata data dalle agenzie e dai presenti alla riunione straordinaria di questa mattina. E il premier, su Facebook, celebra lo “stanziamento” come un grande successo: “Ho chiesto ai dirigenti pubblici di sacrificare questo giorno festivo per approvare progetti concreti e così dare un segnale di speranza a chi un lavoro non ha. Il fatto che il Cipe si sia svolto oggi è un segnale di grande importanza simbolica: continuiamo a lavorare perché l’Italia sia finalmente sbloccata. L’Italia è più forte di chi dice solo no”. Peccato che il Piano nazionale della ricerca (Pnr) 2015-2020 approvato dal comitato, che stando a Renzi che dovrebbe rilanciare l’università italiana, riportare in patria i suoi migliori cervelli e dar vita a progetti all’avanguardia, in realtà sia tutt’altro che una svolta.
Basti dire che il documento arriva con due anni di ritardo rispetto alla prima bozza. Che è stata elaborata dal governo Letta e la cui approvazione è stata rimandata di mese in mese nel 2015, poi di settimana in settimana nel 2016: il primo annuncio è arrivato a inizio marzo a Pomezia, poi il premier l’ha ripetuto il 2 aprile da Chicago e il 27 ha ufficializzato la cosa nella sua e-news anticipando la convocazione straordinaria del Cipe.
Ma, quel che più conta, nemmeno le risorse sono una novità: i 2,5 miliardi di euro sbandierati dal premier non sono altro che i fondi abituali in dotazione anche negli scorsi anni ad atenei, enti e bandi, già compresi nel bilancio del Miur. Mentre i contributi supplementari in arrivo dall’Europa sono tutti da verificare e probabilmente sono stati sovrastimati dal governo. Mentre, come spiega Leopoldo Nascia – esperto che insieme al professor Mario Pianta cura il Rio Country Report sull’Italia, vero e proprio stato dell’arte della ricerca nel nostro Paese – “ci vorrebbero almeno due miliardi di euro in più all’anno, oltre ai finanziamenti ordinari, per raggiungere gli obiettivi di crescita prefissati”.
SEI PROGRAMMI CON DUE ANNI DI RITARDO – Era il gennaio 2014 quando, a poche settimane dall’avvicendamento a Palazzo Chigi tra Enrico Letta e Matteo Renzi, l’ex ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carozza pubblicava una prima bozza del Piano nazionale di ricerca. Da allora sono passati quasi due anni e il Pnr “2014-2020” è stato ribattezzato “2015-2020”. Il documento, che arriva dunque in forte ritardo, si articola in sei programmi fondamentali: internazionalizzazione, per coordinare le risorse nazionali con quelle europee, capitale umano, con attenzione a ricercatori e dottorandi (a cui sono destinate buona parte dei fondi, oltre un miliardo di euro), infrastrutture, rafforzamento dell’interazione tra pubblico e privato, investimenti specifici per il Sud, razionalizzazione delle spese. Un testo “utile” secondo il professor Gianfranco Viesti, curatore del rapporto “Università in declino” per la Fondazione Res, ma che “non va sopravvalutato: organizza obiettivi, propositi e risorse già prefissati. Senza dimenticare che il Pnr non è vincolante per il governo. Non c’è nulla di rivoluzionario”. Specie per le risorse.
IL BLUFF DEI 2,4 MILIARDI – I 2,4 miliardi per il triennio 2015-2017 (diventano 4,6 fino al 2020) sono infatti soltanto i fondi stanziati in maniera ordinaria per università ed enti. Analizzando le risorse di competenza del Miur, quelle certe e già messe a bilancio, ci si accorge che i capitoli più consistenti sono il Fondo di funzionamento delle Università (Ffo) e quello di Funzionamento degli Enti (Foe), con una quota dedicata alla ricerca rispettivamente di 652 e 340 milioni di euro. Entrambi, però, negli ultimi anni hanno subito solo tagli: l’Ffo 2015 ammonta complessivamente a 6,9 miliardi di euro, rispetto ai 7 miliardi del 2014, ai 7,1 miliardi del 2012 e ai 7,9 miliardi del 2009, epoca pre-Gelmini a cui si deve il grosso della riduzione. Stesso discorso per il Foe, che ha perso nell’ultimo anno 42,9 milioni di euro.
Pochi milioni arrivano dai fondi First e Fisr (176 e 60 milioni per la ricerca di base e l’innovazione), che nel Pnr il governo raccomanda a se stesso di “non tagliare, assicurando adeguati finanziamenti”. Il resto (circa 700 milioni) dai Pon, fondi europei già assegnati all’Italia. L’unica vera novità sono i 500 milioni che provengono dal Fondo di Sviluppo e Coesione, a valere su risorse che però erano già state stanziate nel 2012.
Come si vede dalla tabella di una delle ultime bozze del Pnr, in totale fanno 2,4 miliardi sul triennio, che diventano 6,2 miliardi includendo le risorse concorrenti. Né più né meno di quanto (poco, rispetto al resto d’Europa) destinato alla ricerca in passato: anche il precedente Pnr 2011-2013 elaborato dalla Gelmini ammontava a 6,1 miliardi.
I FONDI COMUNITARI? “UNA SCOMMESSA” – Il vero punto di domanda riguarda poi proprio le risorse concorrenti. Dall’Europa il governo conta di ricavare oltre il 60% dei fondi: 400 milioni di contributi per le Regioni (Por) e 3,4 miliardi in tre anni da Horizon 2020, il grande programma-quadro per l’innovazione lanciato dall’Ue. È con questi soldi che si raggiungerebbe la cifra record di 14 miliardi per tutta la durata del Piano. Peccato, però, che mentre i Pon sono assegnati a ciascuna nazione che realizza poi i bandi (capitali certi, dunque), i fondi di H2020 vengono messi a gara a livello comunitario. Per averli, i progetti italiani dovranno superare la concorrenza di quelli svedesi, finlandesi, tedeschi e del resto d’Europa.
Ma nel precedente programma FP7 l’Italia ha conquistato in tutto 3,6 miliardi di euro, meno della metà dei 7,7 miliardi preventivati. “Il governo fa una stima assolutamente ottimistica per quelle che sono risorse solo eventuali”, spiega Nascia, coautore del rapporto Rio Country Italia in cui sono contenuti questi dati. “Speriamo di riuscire davvero a portare a casa tutte queste risorse. Diciamo che è una bella scommessa, difficile da vincere”.
LONTANI DAL RESTO D’EUROPA – Al di là della retorica governativa, quindi, l’Italia era e rischia di restare ancora lontana dagli standard europei per la ricerca, tra risorse certe deficitarie e fondi aggiuntivi tutti da verificare. Attualmente il nostro Paese spende l’1,31% del Pil in ricerca e innovazione, abbondantemente sotto la media Ue di 2,01%. L’obiettivo per il 2020 è quello di salire fino all’1,53%: “Nel Pnr è indicato questo target, ma non c’è nulla di concreto per raggiungerlo”, conclude Nascia. “A livelli invariati di Pil, ci vorrebbero circa due miliardi di euro in più all’anno rispetto a questi fondi”. Mentre il nuovo Pnr, in ritardo di due anni, pieno di incognite e lacune, rischia di essere già inadeguato nel giorno della sua approvazione.
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