Ho provato un grande sollievo quando ho visto le foto di Saadiya Khan, moglie del nuovo sindaco di Londra Sadiq Aman Khan, che la ritraggono priva di velo. Sollievo perché nella capitale del paese dove il multiculturalismo è la bussola nelle relazioni interculturali (e non la laicità dello Stato come in Francia), il fatto che la first lady non indossi il simbolo più evidente della religione islamica mi pare un gran bel segnale.
Laburista, di origine pachistane Khan, che ha vinto di misura contro il conservatore Zac Goldsmith, è stato globalmente definito dai media principalmente come musulmano, e solo in un secondo momento l’attenzione è stata posta su fattori a mio avviso molto più importanti: essere figlio di un immigrato povero, appartenere ad una famiglia assai numerosa, essere studioso di diritti umani, essersi dichiarato a favore dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, essere femminista, essere europeista.
Sono stata a Londra a fine 2014 per seguire la Secular Conference, appuntamento internazionale sull’emergenza globale causata dall’avanzare dei fondamentalismi religiosi. In quell’occasione Maryam Namazie, studiosa e attivista di origini iraniane ha scandito che “il relativismo culturale e la sistematica teorizzazione del fallimento della laicità favoriscono l’attacco ai diritti civili, in particolare quelli delle donne, e il proliferare delle destre a scapito di tutti noi, credenti e non. La laicità è un diritto fondamentale ed è anche un prerequisito per l’uguaglianza nella società. Trovo interessante che qualcuno a ‘sinistra’ consideri la laicità, i diritti e la libertà come concetti occidentali, mentre invece il nucleare o la più recente tecnologia per reprimere i movimenti sociali e la classe operaia siano considerati il ‘diritto’ degli Stati islamici. Anche se la laicità fosse occidentale, è assurdo sostenere che gli altri non la meritino. Diritti, libertà e laicità sono conquiste ottenute con la lotta dal movimento operaio e dai movimenti sociali progressisti, ed appartengono a tutta l’umanità”.
Fa una grande differenza, per la libertà delle donne, che in Turchia la moglie dell’attuale controverso leader Erdogan, Emine, porti il velo e decanti l’harem come scuola di vita femminile, o che la prima ministra del Bangladesh Sheikh Hasina (anche lei velata) abbia giustificato gli assassinii di giornalisti e attivisti laici da parte dei fondamentalisti islamici perché “ciascuno deve tenere a freno la lingua e mantenere un livello di decenza in ciò che scrive. Se si scrivono cose provocatorie e succede qualcosa di brutto il governo non si assumerà alcuna responsabilità”.
In Italia, specialmente a sinistra, dove il più delle volte si evita di criticare il mondo musulmano (pensando erroneamente che questo sia interamente islamico e osservante) per paura dell’accusa di razzismo l’orientamento è quello di invitare ai dibattiti principalmente esponenti non laici del mondo musulmano, e quasi sempre, se si tratta di donne, le si sceglie velate nella convinzione di fare bene, di essere democratici e di rispettare le differenze.
Un pezzo di femminismo italiano (principalmente accademico) da anni promuove una visione relativista, nella quale la critica al velo e la difesa della laicità nello spazio pubblico e a scuola, come in Francia, viene bollata come colpevole atteggiamento coloniale: la docente Barbara Mapelli invita le ‘femministe occidentali’ ad ‘accostarsi con l’umiltà di chi non sa già tutto alla complessità della realtà femminile islamica e a quello che viene definito il Gender Jiaad, e cioè l’impegno delle donne musulmane per raggiungere l’emancipazione e l’uguaglianza restando fedeli all’Islam’. Il centro donne di Pisa invita l’esponente di spicco dell’Ucoii Patrizia Khadija Dal Monte, convertita, e convinta assertrice dei valori tradizionali islamici.
Molto apprezzata da noi è Hanna Yusuf, esperta di comunicazione e social (lanciata da Internazionale) che definisce il suo velo una ‘scelta femminista’ (la parola ‘scelta’ è oggi un passepartout formidabile) ironizzando su chi, come le ‘femministe occidentali’ lo vedono come simbolo di oppressione.
Ciò che colpisce in questo trend è la sottovalutazione del fattore laicità, e la visione strabica della facoltà di critica: si può attaccare aspramente il cattolicesimo e l’ebraismo, ma guai a toccare la ‘religione delle vittime dell’Occidente’, ossia l’Islam.
In un recente articolo su The Nation dal titolo ‘La sinistra occidentale deve accettare che tra i musulmani esiste un problema con l’estremismo’ l’attivista blogger pakistano Umer Ali scrive: “Vivere in società aperte, dove c’è assoluta libertà di espressione, fa sì che una parte di persone di sinistra non riescano a rendersi conto che le società musulmane chiuse come la nostra non tollerano tali ‘lussi’ . Ad esempio, in un paese come il Pakistan, non è possibile dichiararsi ateo e poi aspettarsi di continuare a vivere. Non si può criticare un dogma religioso pubblicamente, a meno che non si voglia davvero porre fine alla propria vita”.
Marieme Helie Lucas, sociologa algerina fondatrice del sito Siawi (Secularism is a women issue) che sa bene cosa succede in una società islamizzata, ha commentato così il video della Yusuf: “In Iran a partire dalla fine degli anni 70 le donne (e le ragazze) sono state condannate a morte per essere ‘impropriamente coperte’. In Algeria durante il buio decennio degli anni 90 donne e ragazze sono state sgozzate perché non portavano il velo. In Afghanistan sotto i Talebani le donne venivano uccise se non erano coperta dalla testa ai piedi. In Nigeria un paio di anni fa decine di ragazze sono state rapite, convertite forzatamente e obbligate al burka. Questo non avrebbe nulla a che fare con ‘il diritto di velo’ che attualmente è difeso da belle ragazze sui canali televisivi dell’Europa occidentale? Domando: si può essere ciechi fino a questo punto? In Europa velarsi sarebbe solo una scelta personale, magari ‘di moda’, mentre nel resto del mondo è imposto alle donne e la disobbedienza o la resistenza sono punite con la morte? In Europa, quindi, si tratterrebbe di indossare ciò si vuole, mentre nel resto del mondo sarebbe una delle tante limitazioni per le donne, come il diritto allo studio, il divieto di accedere ai servizi sanitari quando sono forniti da personale maschile, o la libertà di movimento, diritti fondamentali negati alle donne e alle ragazze?
Come si può ignorare che nelle periferie di Parigi o di Marsiglia controllate dai fondamentalisti alcune giovani sono state uccise perché rifiutavano il velo? Sono molte le voci di donne che hanno dovuto abbandonare i loro paesi a causa delle imposizioni dell’attivismo religioso di estrema destra (tra le quali c’è l’obbligo del velo) che non hanno trovato eco nei media europei. Negare il ruolo svolto dal velo nella strategia globale fondamentalista è un modo per assicurare visibilità e far guadagnare terreno al processo di islamizzazione della società”.