Il 30 maggio si terrà a Parigi un incontro tra le potenze internazionali per riaprire il dialogo tra Israele e Palestina e cercare di porre fine almeno ad una delle innumerevoli tensioni che stanno scuotendo la regione. Questo primo incontro non prevede, però, l’intervento di israeliani o palestinesi, che prenderanno parte ai lavori soltanto alla riunione definitiva, ipotizzata entro la fine dell’anno. Le reazioni a questa decisione sono state, come si può immaginare, di varia natura. Se l’Autorità palestinese ha ben accolto il summit e attende speranzosa il supporto delle forze internazionali, Israele e Hamas hanno invece reagito con scetticismo. Contrariamente all’entusiasmo dell’Anp, Netanyahu ha rigettato l’iniziativa francese, reputando inaccettabili questi negoziati che non prevedono la partecipazione dei diretti interessati, mentre Hamas si è limitato a sostenere l’inutilità del processo di pace, una vera e propria vaudeville che si prende gioco dei Palestinesi.
Secondo il primo ministro israeliano, l’unico modo per risolvere l’annoso conflitto consisterebbe nell’organizzare dei negoziati bilaterali e diretti con i Palestinesi, mentre ogni altra opzione allontanerebbe dall’obiettivo. In ogni caso il summit è stato convocato e il ministro degli Esteri francese, Jean-Marc Ayrault, farà visita a Netanyahu intorno a metà maggio per tentare un’ultima volta di convincere le due parti a sostenere il processo di pace. Non sono in pochi a pensare che questa iniziativa francese cada in questo periodo approfittando dell’assenza statunitense, ovvero della fase di stallo legata alla campagna elettorale in corso negli Usa e alla paralisi di un’amministrazione Obama in uscita, e che abbia come finalità quella di evitare la supremazia statunitense nei negoziati bilaterali, rilanciando il ruolo della Francia come intermediario tra le parti.
Alcuni ritengono anche che l’iniziativa francese possa rappresentare una risposta indiretta alla strategia non interventista di Washington, fin qui incapace di risolvere i conflitti, sebbene lo stesso François Delattre, presidente della Nazioni Unite, abbia sottolineato come i negoziati israelo-palestinesi costituiscano un processo lungo e irrisolvibile nell’immediato. Il summit del 30 maggio analizzerà il rapporto stilato dal quartetto (Stati Uniti, Russia, Ue e Onu) che verte sul complessivo deterioramento delle condizioni nella regione negli ultimi sei mesi, ma include anche alcune clausole contenute nel piano di pace arabo del 2002 proposto dalla Lega araba su iniziativa saudita. Sempre a Parigi, inoltre, è previsto un altro incontro a giugno, al quale prenderanno parte l’Egitto, i membri del quartetto e del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Lega araba e i principali Paesi europei.
Tutte queste iniziative sembrano, tuttavia, partire “con il piede sbagliato”. I rapporti tra Israele e Palestina si sono ulteriormente deteriorati negli ultimi tempi, sia tra le rispettive popolazioni, che esprimono tassi di sfiducia mai raggiunti prima e difficilmente reversibili nell’immediato, che tra le rispettive classi dirigenti. Israele, inoltre, non ha intenzione di ritornare alla vecchia soluzione “dei due Stati”, come Bibi ha esplicitamente dichiarato alcuni giorni fa durante le cerimonie di festeggiamento dell’Indipendence Day. In una situazione grave come quella attuale, viene spontaneo domandarsi se intavolare un processo di pace (senza i diretti interessati tra l’altro), i cui presupposti non sussistono e nel disincanto generale, porterà a qualche risultato tangibile o semplicemente ad esacerbare i rapporti tra i due diretti interessati, ad infuocati dibattiti e ad un più generale sviamento dell’opinione pubblica da temi più pressanti e necessari, come l’inclusione dei rifugiati, la deradicalizzazione in Europa e il conflitto in Siria, che attendono urgentemente una soluzione che necessita della dovuta attenzione delle classi politiche e dei cittadini europei, finora colpevolmente distratti su questi temi che pure li riguardano tanto da vicino.