“Meglio renziano che figlio di puttana“. In una “conversazione cinica” con Il Foglio, Vittorio Feltri, tornato ieri alla guida di Libero, annuncia con la consueta pacatezza le linee programmatiche della sua direzione e spiega in parte le logiche che lo hanno riportato alla direzione del quotidiano che aveva fondato nel 2000.
Mettendo in fila due fatti, la cronaca racconta più o meno questo: l’ex numero uno del quotidiano, Maurizio Belpietro, era ostile alle riforme costituzionali del governo Renzi. Una nota stonata a pochi mesi dal referendum di ottobre su cui il presidente del Consiglio ha annunciato di volersi giocare il prosieguo del mandato. Così, pronti-via, Feltri – favorevole alla nuova architettura istituzionale disegnata dall’esecutivo – è tornato sulla poltrona fino a pochi giorni fa occupata dall’ex delfino. Ma al direttore questa lettura non piace.
E smentisce di essere stato chiamato a dirigere Libero per spostarne la linea e fare campagna per il referendum, apostrofando chi lo dice: “Sul Fatto Quotidiano scrivono che ho pranzato con Renzi, uno che non ho mai visto in vita mia. Prima di diventare un fedelissimo di qualcuno bisognerebbe averci un minimo di rapporto. E poi essere favorevoli alle riforme istituzionali, dire che voterò sì al referendum, non significa essere renziani. E comunque meglio renziano che figlio di puttana”. Un sillogismo piuttosto imperfetto, ma chiaro.
“Ero in contatto con gli Angelucci, gli editori, da luglio – racconta Feltri – ad Angelucci, al figlio, dissi: ‘Non vengo a fare il maggiordomo di Belpietro (Maurizio, direttore uscente, ndr) Già è difficile scrivere sul Giornale che Berlusconi fa delle sciocchezze (per così dire), figurarsi se mi devo fare condizionare da un altro direttore”, racconta Feltri. “Belpietro l’ho inventato io”, dice. Quanto a Berlusconi, “sono stato molti anni dalla sua parte, quando era lucido. Ora lui è sincero solo quando mente. Non sono berlusconiano”.
A chi, come ha fatto più o meno velatamente l””inventato” Belpietro nel suo editoriale di commiato, lo accusa di incoerenza, Feltri argomenta: “In contraddizione sono lui e Berlusconi. Mesi fa il Cavaliere era favorevole alle riforme istituzionali, le ha quasi scritte lui queste benedette riforme. Poi con un’acrobazia, che non mi scandalizza ma mi fa dubitare della sua capacità di analisi, ha cambiato idea. E adesso eccolo che organizza i comitati per il ‘no‘”. Ma qualche distinguo è meglio farlo: “A me il patto del Nazareno non mi trovava d’accordo, e ancora adesso penso che le riforme istituzionali non siano magnifiche. Ma sono qualcosa. E comunque meglio del nulla degli ultimi trent’anni. Se non si cambia adesso la Costituzione, non la si cambierà mai…”. Nel frattempo il direttore ha “assistito al disfacimento del centrodestra: una fetta l’ha tagliata Fini, una fetta l’ha tagliata Alfano, una fetta l’ha tagliata Verdini, poi è arrivato pure Fitto. Alla fine è rimasto solo il culetto”.
Tra Libero e il governo, però, sono rimasti in ballo anche i soldi, quei 15,7 milioni che l’editore Antonio Angelucci deve restituire al Dipartimento per l’editoria della presidenza del Consiglio dei ministri che delibera i contributi pubblici al giornali, l’ufficio di Palazzo Chigi che rientra fra le deleghe del sottosegretario Luca Lotti. Il quale ha spalmato il debito su 10 anni: 1,5 milioni di euro con gli interessi ammassati sull’ultima rata, nel 2025. Non solo: dato che il quotidiano riceve ancora il sussidio statale ripristinato con l’avvento di Renzi (3,5 milioni di euro liquidati a dicembre), Angelucci e la sua Tosinvest hanno attutito il debito con lo Stato.
Senza contare il legame che lega Angelucci a Denis Verdini, il teorico del Partito della Nazione che, mentre con una mano tagliava la sua fetta di centrodestra, con l’altra saldava una santa alleanza sulle riforme con Matteo Renzi e le puntellava dove necessario in Senato. Per il creatore di Ala l’editore di Libero è un generoso amico: gli ha prestato 8 milioni di euro tutelandolo da un’esposizione verso il Credito Fiorentino, banca che lo stesso Verdini ha amministrato per anni.
Intanto nel primo editoriale del suo ritorno alla direzione di Libero, Feltri promette di dire “pane al pane, vino al vino”, con un “linguaggio colloquiale, più ironico che acido, perché siamo convinti che sia già faticoso vivere la vita e non sia il caso di raccontarla con la bava alla bocca per polemizzare a ogni costo”. “Prenderemo di mira chi sbaglia e incoraggeremo chi sbaglia meno degli altri, posto che l’errore è il denominatore comune dell’umanità”, prosegue Feltri. “I nostri commenti e le nostre cronache non saranno improntate a pregiudizi”.