È bastato un timbro del giudice per archiviare l’inchiesta della Procura di Vicenza sull’avvelenamento delle acque causato dai composti Pfas in Veneto. L’indagine sull’emergenza ambientale e sanitaria per le sostanze perfluoro-alchiliche, che hanno contaminato l’acqua delle province di Verona, Vicenza e Padova e il sangue di più di 60 mila veneti, è finita nell’archivio della procura vicentina il 25 luglio 2014 senza l’individuazione di un solo indagato. E per chiudere il fascicolo affidato al pm di Vicenza Luigi Salvadori – che ilfattoquotidiano.it ha potuto consultare – rimasto iscritto contro “ignoti”, non è stato necessario nemmeno un decreto motivato del gip, che ha fatto proprie le argomentazioni degli inquirenti.
Nel marzo scorso sembrava che l’indagine fosse ancora pendente, stando alle informazioni fornite dalla Procura di Vicenza in risposta a una richiesta de ilfattoquotidiano.it. Ma nel corso dell’audizione del procuratore capo di Vicenza, Antonino Cappelleri, alla Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti lo scorso 16 maggio, è emerso invece che il primo fascicolo d’indagine sul caso Pfas è stato archiviato nel luglio 2014 (due nuovi filoni sono stati aperti contro ignoti nel 2015 e uno nel 2016, in seguito all’esposto di alcuni parlamentari). L’inchiesta, nata da un’informativa dell’Arpav dell’8 luglio 2013 che segnalava il grave inquinamento da composti perfluoro-alchilici e indicava come fonte la ditta Miteni di Trìssino, è stata chiusa dopo poco più di un anno “in quanto dalla comunità scientifica – scrive il pm Salvadori nella richiesta di archiviazione – non emergono indicazioni univoche circa i limiti di tollerabilità delle sostanze e, più in generale, vi è incertezza sul loro effetto”.
L’archiviazione dell’inchiesta sul maxi inquinamento da Pfas, secondo la Commissione bicamerale sui rifiuti presieduta da Alessandro Bratti, “desta gravi perplessità – si legge nella proposta di relazione sul Veneto – considerato che dalla tabella allegata alla denunzia dell’Arpa si evince, in modo chiaro e univoco, che l’incidenza della contaminazione (…) è prevalentemente dovuta alla rilevante presenza di sostanze perfluoro-alchiliche nello scarico industriale della Miteni Spa”. L’informativa Arpav suggeriva anche di disporre “accertamenti tecnici peritali” per comprovare “l’origine e l’evoluzione nel tempo della contaminazione” e acquisire elementi a sostegno dell’ipotesi di reato di adulterazione e avvelenamento colposo delle acque. Ma l’indagine, delegata ai carabinieri del Nas di Padova, si è limitata all’acquisizione di due pareri precedentemente espressi dall’Istituto superiore di sanità sulla pericolosità dei compisti perfluoro-alchilici. Nel primo documento dell’Iss del 7 giugno 2013, il direttore del dipartimento di Ambiente e prevenzione primaria, Loredana Musmeci, spiega che “non è configurato, allo stato, un rischio immediato per la popolazione esposta”. E raccomanda, tra l’altro, “corretti sistemi di comunicazione con cittadini, opinione pubblica e media” perché le misure di prevenzione “potrebbero essere percepite, invece, come azioni di risposta a un reale pericolo concreto per la salute pubblica già da tempo in essere”.
Nel secondo parere dell’Iss, del 16 gennaio 2014, la dottoressa Musmeci indica gli obiettivi di qualità per le acque destinate al consumo umano (i cosiddetti “livelli di performance” di 1.030 ng/l di Pfas, molto più alti di quelli stabiliti negli Usa) definendoli “un valore provvisorio tossicologicamente accettabile”. Le indagini della Procura di Vicenza, stando al fascicolo consegnato a ilfattoquotidiano.it, finiscono qui. Anche se sulle sostanze perfluoro-alchiliche “c’era un’ampia letteratura scientifica – commenta a ilfattoquotidiano.it il presidente della Commissione rifiuti, Bratti – che prefigurava quantomeno un alto livello di attenzione”. Così è finita in archivio l’inchiesta su una delle più estese contaminazioni dell’ambiente e della popolazione nel nord Italia.