Basic CMYKE’ trascorso un mese da quando, il 10 maggio scorso, la ministra senza portafoglio per le Riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento con delega all’attuazione del programma di governo Maria Elena Boschi ha ricevuto la delega per le Pari opportunità eppure non le abbiamo sentito proferire verbo sul nuovo incarico assunto, né sulle problematiche che coinvolgono le donne, né tantomeno sulla violenza che le travolge (l’ultimo caso di cronaca ci parla di una maestra pugnalata dal compagno nel veronese).

Il 2 giugno scorso, dopo la morte di Sara Di Pietrantonio e le uccisioni di altre donne succedutesi l’una dopo l’altra – dal femminicidio-suicidio di Pordenone a quello avvenuto a Taranto, sono stati appesi drappi rossi ai balconi e alle  finestre per dire “basta” alla violenza contro le donne. Uno di quei drappi, forse sarà sfuggito alla ministra, è stato appeso anche alla finestra di Montecitorio dalla presidente della Camera, Laura Boldrini. Nella stessa giornata, in diverse città italiane, sono stati organizzati flash mob per  chiedere al governo, di cui la ministra Boschi fa parte, interventi a sostegno delle donne vittime di violenza.

Ci sono voluti ben tre anni, dopo le dimissioni della ministra Iosefa Idem il 24 giugno 2013, per avere di nuovo una titolare delle Pari opportunità che dovrebbe (in teoria) finalmente coordinare e realizzare tutti gli interventi a tutela  dei diritti delle donne. Forse non dovremmo affatto stupirci di queste indifferenza e ignavia che rivelano quale considerazione abbia l’attuale governo Renzi delle Pari opportunità,  ovvero di quanto rispetti  i diritti delle donne.

Eppure la parità di genere non è affatto un traguardo raggiunto. Anzi la condizione delle donne nel nostro Paese è notevolmente peggiorata. Di problemi, sulle spalle delle donne, ce ne sono moltissimi. Dalla sudditanza economica alla condizione occupazionale, dalla scarsa tutela della salute e fino alla negazione del valore stesso della vita. Anche nel nostro Paese, come nel resto del mondo, la povertà colpisce maggiormente le donne. La assenza di tutele per le donne lavoratrici che scelgono di diventare madri, fa perdere  il lavoro e non basta il semplice annuncio (quindi nulla di concreto) riguardo al bonus bebè lanciato dalla ministra alla Salute Beatrice Lorenzin. Un bonus che rappresenta più un’elemosina che si fa alla plebaglia piuttosto che la realizzazione di politiche per il rispetto dei diritti di cittadine e cittadini.

La mancata applicazione della legge 194 sull’aborto a causa della mancanza di un tetto all’obiezione di coscienza, sta lentamente svuotando la normativa stessa. L’Italia è stata condannata per la seconda volta dal Comitato europeo dei diritti sociali del Consiglio d’Europa, in seguito al reclamo della Cgil (la prima condanna è del marzo del 2014 in seguito al ricorso della Laiga). Si tratta di una sentenza importante perché sancisce, nonostante la ministra Lorenzin faccia orecchie da mercante e continui a negare il problema, la necessità che il sistema sanitario nazionale garantisca la piena e corretta applicazione della legge 194 in tutto il Paese. A peggiorare la situazione c’è stata – forse la ministra Boschi non se n’è accorta – la depenalizzazione del reato di aborto clandestino (bene) che però ha portato a lievitare la sanzione amministrativa (male) prevista con la vecchia legge, da 51 euro a 5-10mila, cosa che ha sollevato una protesta sul web su iniziativa del gruppo #ObiettiamoLaSanzione. In Italia sta tornando l’aborto clandestino e il governo persevera con la strategia del muro di gomma contro il quale si infrange il diritto alla salute e all’autodeterminazione delle donne conquistato quasi 40 anni fa.

Eppoi c’è il problema, non proprio irrilevante, della violenza contro le donne. Nei giorni della protesta dei drappi rossi – ma forse la ministra Boschi non se n’è accorta – veniva lanciata in rete una petizione per evitare la chiusura di uno dei centri antiviolenza storici di Roma, il “Donatella Colasanti Rosaria Lopez” gestito dalla cooperativa Bee Free e a rischio di sfratto. Nonostante la ratifica della Convenzione di Istanbul avvenuta il 19 giugno 2013, i luoghi che accolgono le donne in difficoltà sono ancora a rischio chiusura perché perdono la sede, non ricevono adeguatamente i fondi o si fanno pasticci distribuendo fondi a pioggia spesso con logiche clientelari e senza alcuna trasparenza.

Il giorno dopo la delega di Boschi alle Pari opportunità, Titti Carrano presidente di “Donne in rete contro la violenza, D.i.Re, associazione nazionale che rappresenta 75 centri antiviolenza, auspicava “l’impellenza di una governance dedicata alle politiche di prevenzione e contrasto alla violenza alle donne, a partire dal varo del Piano nazionale contro la violenza alle donne“. Inoltre, manca ancora in Italia, la mappatura dei centri antiviolenza sul territorio nazionale e lo sblocco dei finanziamenti per il 2015 e il 2016. Il 4 giugno scorso, il Coordinamento regionale dei centri anti-violenza dell’Emilia Romagna,  ha richiamato “l’attenzione del governo delle istituzioni e della società civile sulle cause alla base della violenza contro le donne, che sono di ordine culturale” e ha sollecitato a intraprendere quei percorsi per sostenere le donne e fermare la violenza: fondi ai centri anti-violenza e corsi di educazione al genere e alla affettività nelle scuole. Il Coordinamento ha anche denunciato iniziative  come “l’apertura in Lombardia, di un call center per denunciare la diffusione della teoria gender, cioè di quei progetti nelle scuole che cercano di far ragionare bambine e bambini, ragazze e ragazzi su amore, gelosia e libertà“. In mancanza di interventi del governo rischiano di  naufragare per il contraccolpo di iniziative oscurantiste, tutti quei i progetti  di prevenzione che la stessa Convenzione di Istanbul ci vincola a realizzare.

Trenta giorni sono trascorsi: numerose sono partite le richieste di un segnale da parte del movimento delle donne e delle associazioni femministe, ma dalla ministra Boschi, finora, c’è stato solo il silenzio.

@Nadiesdaa

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