Il 6 marzo scorso, a tre anni esatti dalla morte di David Rossi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Davide Vecchi in cui venivano sottolineati i veri misteri su tutto quello che è accaduto prima, durante e dopo la caduta del manager Mps. Lo ripubblichiamo oggi alla luce delle ultime ipotesi giornalistiche sul caso emerse con la pubblicazione di un video del New York Post.
Un’ultima telefonata da dieci minuti mai rintracciata. Un’agendina nera sequestrata e scomparsa. E poi numeri di cellulare rimasti senza nome, testimoni non convocati, l’ufficio in cui ha trascorso le ultime ore di vita lasciato aperto per quasi un’intera giornata, persone riprese dalle telecamere di sorveglianza accanto al corpo schiantato al suolo ma ancora vivo non individuate. Ogni volta che dalla procura di Siena spunta qualche atto d’indagine relativo alla morte di David Rossi emergono nuovi dubbi sulla prima inchiesta che bollò frettolosamente e in poche settimane la scomparsa dell’ex capo comunicazione di Rocca Salimbeni come suicidio. E quando la vedova, Antonella Tognazzi, ha invocato giustizia chiedendo di riaprire il caso, si è ritrovata indagata con l’accusa di voler ricattare la banca e speculare sulla tragedia. Lei e pure il suo avvocato, Luca Goracci.
Nel novembre 2014 presentarono una prima istanza di riapertura allegando alcuni elementi emersi dall’analisi degli hard disk dei computer di Rossi e dei filmati delle telecamere di sorveglianza. Dai primi saltarono fuori mail con le quali David annunciava all’amministratore delegato, Fabrizio Viola, la volontà di togliersi la vita e andare a parlare con i magistrati. Dall’analisi delle seconde il consulente Luca Scarselli concluse che la caduta e l’impatto al suolo non corrispondevano alle dinamiche di un suicidio. Più altri elementi. Ma non servì. C’è voluto un cambio al vertice della Procura, la tenacia dei familiari e altre tre perizie con l’evidenza tecnica e riscontri autoptici a far riaprire l’inchiesta nel novembre 2015.
Oggi, a distanza di tre anni da quel 6 marzo 2013 quando David uscì dal Monte passando per la finestra del suo ufficio, Siena ricorda il suo figlio scomparso con un corteo che alle 17.30 partirà proprio da piazza Salimbeni. “Rompete il silenzio, alzate la testa” recita la locandina che invita la città a reagire e chiedere la verità. Magari non solo su quanto accaduto a David, ma anche all’altro cadavere della città: quella banca un tempo regina che ha reso Siena una delle città più ricche d’Italia.
Alla Fondazione che l’ha a lungo controllata pochi giorni fa il ministero dell’Economia ha chiesto pure di rinunciare all’articolo fondativo dello Statuto del 12 febbraio 1472 che impegna i vertici a mantenere la sede a Siena. E negli ultimi cinque secoli son accaduti eventi ben più tragici dell’acquisto di Antonveneta, l’operazione cui ancora oggi si attribuisce la responsabilità principale della crisi del Monte e dell’effetto domino che ha decimato i blasoni della città: la squadra di basket Mens Sana, il Siena calcio, l’università, il polo museale.
A compiere quell’operazione finanziaria furono i vecchi amministratori: Giuseppe Mussari, Gianluca Baldassarri e Antonio Vigni. Sono ritenuti i colpevoli di tutto. Lasciarono il Monte con i conti del 2013. Da allora i nuovi vertici, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, chiamati per salvare l’istituto di credito, non sono riusciti a bloccare l’emorragia. La ricchissima Fondazione è stata spogliata, circa duemila dipendenti sono stati licenziati o esternalizzati e centinaia di sportelli venduti.
La Bce, lo scorso ottobre con gli stress test, ha concluso che il problema non era solo Mussari & C., rivelando che la drammatica situazione finanziaria sia dovuta per lo più ai crediti deteriorati e non, come si è sempre lasciato intendere, alle conseguenze dei derivati Alexandria e Santorini. Dopo l’intervento della banca centrale, Mps ha riportato nel bilancio 2014 il dato delle perdite su crediti: 7,8 miliardi. Contro i 2,7 del 2013, i 2,6 del 2012 e l’1,3 del 2011. Gli anni dell’era Mussari. Quello cacciato a suon di monetine. Lui è a processo. È stato condannato a Milano, insieme a Baldassari e Vigni, per ostacolo alla vigilanza in merito ai contratti derivati. I tre sono ricorsi in appello. L’iter della giustizia.
Lo stesso che chiedono i familiari di David Rossi. Lui non era indagato né coinvolto nell’inchiesta. Eppure il 19 febbraio, due settimane prima di morire, fu oggetto di perquisizione perché “legato o collegato in ragione di pregressi rapporti amicali, professionali e personali” a Mussari, si legge nel decreto di perquisizione firmato dai pm Aldo Natalini e Giuseppe Grosso. Perquisirono l’abitazione privata, l’ufficio, i veicoli e persino – si legge – “la persona”. Perché era ritenuto amico di Mussari. Durante le perquisizioni non fu rinvenuto nulla di utile. Quando, due settimane dopo, il cadavere di David venne ritrovato senza vita, il pm titolare dell’inchiesta sul presunto suicidio, Nicola Marini (poi affiancato da Natalini), non approfondì con la medesima attenzione: questo hanno sempre lamentato i familiari di Rossi. E lo chiedono ancora oggi. Insieme alla città. Orfana anche della banca.