Francia, Austria, Grecia, ma anche Italia e Germania. L’uccisione della deputata labourista britannica Jo Cox potrebbe aver inferto il colpo fatale alla Brexit. Ma l’effetto domino scatenato dal referendum britannico sull’uscita dall’Unione Europea potrebbe essere già iniziato e pronto a coinvolgere anche altri stati membri. “Che il Regno Unito esca o meno dall’Ue – sostiene Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (Aseri) dell’Università Cattolica di Milano – gli altri Paesi hanno capito che una contrattazione con l’Europa è possibile. Quindi faranno di tutto per ottenere più vantaggi possibili da questa situazione”. E il primo pilastro dell’unione a essere messo in discussione “sarà l’Euro”.
L’omicidio di Cox ha spostato i sondaggi fino a oggi equilibrati, con leggero vantaggio per il fronte della Brexit, verso la permanenza del Regno Unito nell’Unione. “Ѐ un risultato tutt’altro che scontato – continua Parsi – la Gran Bretagna è un Paese diverso dagli altri, con un popolo fiero e geloso della propria sovranità e dallo spiccato patriottismo. D’altra parte, storicamente sono la monarchia mai sconfitta dell’Europa. Se questo omicidio influirà, lo farà sugli indecisi”.
Che sia Brexit o meno, sostiene l’analista, un effetto domino potrebbe innescarsi ugualmente. “Se il Regno Unito uscisse dall’Unione e le conseguenze apocalittiche preannunciate da molti esperti non dovessero realizzarsi, in molti proverebbero a imitare la scelta di Londra. Ma questo processo potrebbe innescarsi indipendentemente dal risultato del voto”.
E tra i primi Paesi che potrebbero guardare concretamente a un’uscita dall’Unione ci sono, per motivi diversi, la Francia e l’Austria, dove partiti e movimenti euroscettici stanno continuando a crescere, come testimoniato dalle ultime elezioni presidenziali austriache e l’ascesa continua del Front National di Marine Le Pen; la Grecia, dove lo spauracchio Grexit è stato un tema centrale dell’ultimo anno di governo, e, dice Parsi, anche l’Italia, dove Movimento 5 Stelle e Lega Nord cavalcano il sentimento euroscettico di una bella fetta della popolazione.
“Non sono né la questione migranti né quella monetaria i principali temi che stimolano l’euroscetticismo – spiega Parsi – bensì il crescente sentimento anti-establishment nella classe media. L’Europa unita è il battistrada della globalizzazione che, fino ad oggi, ha creato una spaccatura tra le classi più alte, sempre più ricche, e quelle più basse, sempre più povere, con una graduale cancellazione della classe media che però rappresenta la base della democrazia politica”.
L’ondata di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea è testimoniata dalle elezioni politiche, amministrative e presidenziali degli ultimi anni che hanno registrato una tendenziale crescita dei partiti euroscettici. Come in Spagna, dove Podemos ha ottenuto il 21% dei voti alle ultime politiche, conquistando 69 seggi in Parlamento e diventando il terzo partito a livello nazionale. Un 21% che potrebbe essere attratto da un’eventuale vittoria della Brexit.
In Polonia, nonostante il Paese sia tra quelli che maggiormente beneficiano dei fondi europei (77,5 miliardi dal 2014 al 2020), l’euroscetticismo ha trionfato alle ultime elezioni con il partito Diritto e Giustizia del Primo Ministro, Beata Szydło. Un euroscetticismo che però, probabilmente a causa proprio dei fondi europei, può essere definito moderato rispetto a quello dei Democratici Svedesi, partito nazionalista di destra. Il suo leader, Jimmie Åkesson, che dopo le elezioni del 2014 può contare su 49 seggi al Riksdag, ha dichiarato di auspicare un referendum simile a quello britannico in Svezia, nella speranza di un’uscita del Paese dall’Unione.
Una situazione, quella svedese, simile a quella della vicina Finlandia. Dopo le elezioni del 2015, il partito nazionalista ed euroscettico dei Veri Finlandesi si è imposto come seconda forza politica del Paese, con oltre il 17% delle preferenze e 38 seggi in Parlamento. Rilevanza che ha portato il Partito di Centro Finlandese, guidato dal Primo Ministro Juha Sipilä, a coinvolgere il leader Timo Soini nella coalizione di governo.
A sostenere la causa antieuropeista in Danimarca è invece il piccolo partito di destra Movimento Popolare contro l’Ue. La sua influenza sulla vita politica del Paese è quasi nulla, visto che occupano un solo seggio in Parlamento. Certo è che la causa euroscettica in Danimarca supera i limiti del consenso politico del Movimento: come spiega l’Express, i sondaggi parlano di un 33% della popolazione danese che vorrebbe uscire dall’Unione, contro il 25% del 2013, con solo il 56% che ancora crede di dover rimanere in Ue. Tendenza che ha convinto il Movimento Popolare contro l’Ue a lanciare una petizione per convincere il governo a indire un referendum per l’uscita del Paese dall’Eurozona.
Secondo Parsi, però, un’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione Europea potrebbe coinvolgere anche un altro insospettabile Paese membro: la Germania. “Berlino ha sempre dimostrato scarsa attitudine alla leadership in ambito europeo, più interessata a perseguire interessi nazionali che comunitari – dice il direttore dell’Aseri – l’uscita di un membro così importante come la Gran Bretagna costringerebbe l’Ue a chiedere al governo di Angela Merkel maggiore impegno in questo senso e non so se la Germania abbia intenzione di farlo. In questo caso, l’euroscetticismo potrebbe gradualmente crescere all’interno delle forze politiche del Paese”.
E a chi dice che l’uscita della Gran Bretagna non influirebbe sulla questione monetaria, Parsi ribatte: “Con un Paese come il Regno Unito fuori dall’Ue, gli altri membri vorranno ricontrattare lo stato dell’Unione. Come ho detto, gli Stati sanno di poter contrattare e in questo caso lo farebbero. E qual è il primo aspetto, quello su cui è più facile intavolare una discussione e, eventualmente, trovare un accordo? L’Euro”.