Una fotografia ingiallita vecchia di sei mesi. È questa la Spagna immortalata alle urne. Un Paese che come il 20 dicembre scorso si ritrova senza un partito che da solo ha i numeri per governare, e per questo ancora “condannato” a una paralisi politica provocata dalla “morte” del bipartitismo, a meno di un’improbabile alleanza tra popolari e socialisti (ipotesi già naufragata a dicembre). E a questo punto non è fantascientifico immaginare un terzo ritorno alle urne fra pochi mesi. Nemmeno lo spettro della Brexit è riuscito a dare un impulso significativo.

Crescono i popolari. Podemos arretra e fallisce il sorpasso sui socialisti
L’unico effetto tangibile da collegare al referendum inglese è il rafforzamento del Pp di Mariano Rajoy: una parte degli elettori si è convinta a votare la ‘sicurezza’ contro l’avventura di Podemos. E così i popolari si confermano primi con 137 seggi su 350 (13 seggi più che a dicembre) e con il 33% dei voti. Non abbastanza però per la spinta decisiva. Il Pp ha conquistato però la maggioranza assoluta nel Senato di Madrid con 130 seggi su 208, davanti a Psoe (43) e Podemos (16). I senatori in Spagna non votano la fiducia al governo ma sono decisivi nelle riforme costituzionali.

Per il resto lo scenario è immutato, o quasi. Soprattutto a sinistra. Il tanto sognato storico “sorpasso” di Podemos sui socialisti è rimasto una chimera da exit poll e da sondaggi della vigilia. La formazione di Pablo Iglesias (alleata con Izquierda Unida) ha ottenuto il 21,1% e 71 seggi, gli stessi di sei mesi fa quando però si presentò da solo. E a spoglio concluso il leader deve ammettere che la prestazione del suo partito “non è stata soddisfacente” e che la “perdita di consenso per il blocco progressista” lo preoccupa non poco. “Rivendichiamo il diritto di governare, perché abbiamo vinto – ha detto il premier spagnolo uscente – Da domani (oggi, per chi legge), ha aggiunto, inizieremo a parlare con tutti” in vista della formazione di un futuro governo.

Psoe cala. Crollo di Ciudadanos
Il Psoe di Pedro Sanchez si conferma la seconda forza ma deve fare i conti una leggera flessione: ottiene il 22,7% dei voti e 85 deputati contro i 90 del Congresso uscente. Si salva comunque dal disastro annunciato dai sondaggi. Quello descritto dai dati ufficiali è uno quadro dunque diverso da quello pronosticato dagli ancora una volta sconfessati exit poll, che davano Unidos Podemos secondo e i socialisti al terzo posto per la prima volta dopo il ritorno della democrazia nel 1977. Anche con queste proiezioni, però, veniva a delinearsi un Paese senza una maggioranza in grado di governare. C’è da registrare il tonfo della neo formazione di centrodestra anti-casta di Ciudadanos: racimola 32 seggi e il 13%, ma il botto è notevole se si pensa che alla prima prova nella sua storia ne aveva conquistati 40. Probabile che i suoi voti siano stati drenati dai popolari. Tra le possibili opzioni un governo di centrodestra grazie a un patto con i liberali di Ciudadanos, una grande coalizione in stile tedesco tra il Pp e i socialisti, oppure un governo di minoranza dei popolari. La prima opzione sembra, allo stato, la più probabile perché il partito liberale, per bocca del suo leader Albert Rivera, fa sapere di essere pronto ad aprire subito un dialogo con il Partito popolare.

Crollo dell’affluenza alle urne
Ma nel primo Stato europeo ad andare alle urne dopo la Brexit l’astensionismo non è stato da poco, tanto che si parla di una delle affluenze più basse nella storia della Spagna post franchista. Se alle 14 i dati forniti dal ministero dell’Interno indicavano una partecipazione praticamente pari a quella delle precedenti politiche del 20 dicembre, alle 18 i punti in meno rispetto all’ultima consultazione erano ben sette. A nove ore dall’apertura dei seggi – che hanno chiuso alle 20 – l’affluenza è stata del 51,2%, mentre a dicembre era stata del 58,2%. Alle politiche del 2011 era stato registrato alle 18 un tasso del 57,6%.

Il sogno infranto di Iglesias
Di sicuro queste elezioni politiche consegnano due risultati. Il primo riguarda Iglesias e il suo sogno infranto di terremotare il mondo politico spagnolo. Un obiettivo mancato per un soffio se si pensa che il professore con il codino in due anni ha portato Podemos, creato dal nulla nel 2014, alle porte del potere e ha persino “osato” fantasticare il balzo davanti ai socialisti. Non tutto è perso, però. L’abile stratega e comunicatore, rappresentante di una nuova generazione di giovani politici di sinistra, convinto che “il cielo non si prende per consenso, si conquista d’assalto“, dovrà aspettare ancora, è vero. Ma è comunque forte dei suoi 37 anni e dell’adorazione di migliaia di giovani che votano Podemos. Ora che non c’è stato il sorpasso, ed è sfumato il sogno di essere il premier di un esecutivo di sinistra con i socialisti, fa un passo indietro per riorganizzarsi. In attesa del balzo in avanti vero. Gli avversari lo accusano di essere populista, trasformista, un sostenitore del regime bolivariano venezuelano che si è riconvertito in “socialdemocratico” e “peronista”, difensore dei valori della “patria” per attirare il voto moderato. Un suo approdo alla Moncloa, diceva la stampa spagnola alla vigilia, spaventerebbe Ue e Nato. Che si erano spaventate anche con l’arrivo al potere a Atene di Syriza e del suo amico Alexis Tsipras, ora però bene integrato nella nomenclatura del potere europeo.

Raioy “l’inaffondabile” ora è più forte. Ma non abbastanza
L’altra “verità” che esce dalle urne riguarda la tenacia politica di Rajoy. Il galiziano “grigio” ma “inaffondabile” è sempre in pista: due anni fa nessuno, nel pieno della crisi e delle misure lacrime e sangue che il suo governo imponeva al Paese per uscire dal tunnel della gravissima crisi ereditata dal socialista José Luis Zapatero, avrebbe scommesso una vecchia peseta sul suo futuro politico. Ma il presidente del Pp è arrivato primo alle due ultime elezioni politiche. Però senza maggioranza, vittima della morte del bipartitismo spagnolo, trasformato in quadripartitismo dall’irruzione di Podemos e Ciudadanos. Per il politico spagnolo, 61 anni, erede di José Maria Aznar, con il quale ora i rapporti sono gelidi, presidente del Pp dal 2004, premier dal 2011 dopo essere stato sconfitto due volte da Zapatero, ora si apre la partita più complicata. Quella della Gran Coalicion, che deve negoziare con due partner, il Psoe e Ciudadanos, che vorrebbero mandarlo in pensione.

Le trattative impossibili e il possibile ritorno alle urne
Il premier uscente si presenta però ora alle trattative con gli altri partiti con una maggiore autorevolezza: quella del solo leader che ha vinto, e non poco, in queste politiche. Rajoy ha rivendicato che il partito più votato possa comunque governare, se non altro in minoranza. Il deludente risultato della sinistra rende più difficile il possibile tentativo di una maggioranza progressista Psoe-Podemos, che potrebbe però – secondo l’analisi dell’Ansa – cercare di allargarsi ai nazionalisti baschi del Pnv (5 seggi) o ricercare l’astensione degli indipendentisti catalani di Cdc e Erc (17 deputati). Il quadro rimane complesso e assai frastagliato. I quattro leader in campagna hanno detto di essere determinati ad evitare un nuovo ritorno alle urne. Le trattative però si annunciano difficili. E un terzo scrutinio, fra tre o quattro mesi, non appare impossibile.

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