Sono appena tornato da Srebrenica. E’ duro ripercorrere i luoghi dove l’11 luglio del 1995 furono uccise più di ottomila persone. Camminando le strade di Srebrenica, oggi vedi solo un paese che sopravvive alla sua triste fama. Eppure in questo abbandono c’è chi, credendo ancora nella vita come valore, tenta con coraggio di rialzarsi. E’ il caso di quelle donne che pur avendo visto uccisi i propri figli e i propri mariti combattono ancora per un futuro di convivenze in opposizione all’innalzamento di muri. Muri capaci solo di creare altra morte, come sa bene chi ha avuto diretta esperienza di guerra. Solo nei videogiochi i morti non hanno volto. Nella realtà la guerra significa la morte di figli, di madri, di padri.

Da erede dell’Associazione nazionale ex deportati penso che sarebbe utile portare il prossimo 27 gennaio i nostri ragazzi a incontrare, in un viaggio della memoria, le madri di Srebrenica. Sentire le parole di quelle donne e il loro dolore. Vedere il loro impegno quotidiano nel combattere l’odio affinché altre madri non debbano soffrire ciò che hanno sofferto loro.

Credere nella convivenza pacifica dopo aver visto uccidere i propri figli è un valore da tramandare a chi verrà dopo di noi. E tutti dovremmo tenerlo presente come un impegno che ci riporta alla responsabilità individuale.

Se si vuole lasciare qualcosa di utile ai nostri figli, dobbiamo innanzitutto credere nella responsabilità individuale. Ognuno di noi può dire no. Certo a volte è difficile opporsi a un ordine, ma quell’opposizione può salvare una vita e dare dignità alle nostre esistenze. E non è buonismo. Chi parla di buonismo non dimostra l’ingenuità di chi crede possibili le convivenze pacifiche, ma dimostra solo di essere un idiota che ha perso la speranza di lottare per un futuro migliore.

Queste che seguono sono le parole di Senad che ho incontrato pochi giorni fa a Srebrenica.

“Cosa ricorda di quel giorno del luglio 1995?”

“I soldati di Mladic ci fecero salire su un autobus e ci portarono in paese vicino. Ero digiuno da due giorni. Mi fecero scendere e camminare. Io ho problemi fisici e mi muovo a fatica, lo stesso andai. Arrivai davanti a una barricata e ci dissero di scavalcarla. Tentai, caddi e svenni. Quando mi svegliai un soldato di Mladic mi teneva per la caviglia con una mano mentre con l’altra mi puntava addosso la pistola. Stava per sparare. In quel momento arrivò un altro soldato serbo. “Lascialo stare, lo conosco questo musulmano. Lo porto via io.” Facemmo insieme un centinaio di metri in silenzio. Giungemmo in un posto appartato. Mi diede una sigaretta e mi disse: “Prendi questa strada che entra nel bosco e non ti fermare per nessuna ragione. Vai sempre dritto e troverai i tuoi. Camminai e dopo due ore trovai i bosniaci. Fu così che mi salvai. Mi salvai solo per il gesto di un vero essere umano. Non un serbo dell’esercito di Mladic: un essere umano. Un uomo che a rischio della propria pelle aveva compiuto un gesto umano. Probabilmente sapeva bene cosa si intende quando si parla di responsabilità individuale”.

Oggi Senad ha aperto una azienda agricola con un amico serbo. Hanno scelto di procedere insieme. Ponti in opposizione ai muri.

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