Lasciarsi e poi dimenticarsi oppure lasciarsi e ritrovarsi? Il voto favorevole all’uscita dall’Unione europea impone un cambiamento nelle relazioni commerciali del Regno Unito, che si sta interrogando sull’approccio da adottare nei confronti non solo degli altri 27 Paesi dell’Ue, ma anche dei partner commerciali con cui Bruxelles ha nel tempo stretto accordi. Sono 22 i trattati commerciali tra l’Unione e singoli altri Paesi, mentre sono 5 gli accordi multilaterali firmati dall’Ue che riguardano più Paesi. Complessivamente, dunque, il Regno Unito dovrà rivedere ed eventualmente rinegoziare gli accordi con 52 Paesi se vorrà mantenere l’accesso privilegiato che fino a oggi gli è stato garantito dall’appartenenza all’Unione.
“Speriamo che il Regno Unito sia un partner vicino a noi anche dopo l’uscita, ma lo ribadisco: l’accesso al mercato unico comporta l’accettazione di tutte e quattro le libertà, compresa la libera circolazione delle persone”, ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. Sulla stessa linea il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker: “Non si può avere il mercato unico senza assicurare le quattro libertà, tra cui quella di movimento. Su questo punto sono d’accordo con il Consiglio europeo”. Sul tavolo ci sono diversi possibili modelli di accordo. Alcuni prevedono la libertà di circolazione, altri no. Ecco le ipotesi allo studio di Londra.
Il modello norvegese: accesso al mercato unico ma senza decidere le regole – Oslo, come Islanda e Liechtenstein, fa parte dello Spazio economico europeo, e ha pieno accesso al mercato unico ma non ha voce in capitolo sulle sue regole. In cambio dell’accesso, la Norvegia contribuisce al budget dell’Unione. I cittadini europei sono liberi di vivere e lavorare nel Paese scandinavo, che recepisce la maggior parte delle leggi Ue, a eccezione di quelle riguardanti agricoltura, pesca, giustizia e affari domestici. La Norvegia ha rifiutato l’ingresso nell’Unione con due referendum, l’ultimo nel 1994.
Il modello svizzero: accordi su settori specifici – La Svizzera aderisce all’Associazione europea di libero scambio, creata nel 1960 come alternativa per gli Stati europei che non volevano, o non potevano ancora, entrare nella Comunità economica europea, poi trasformatasi in Unione. Oggi ne fanno parte Norvegia, Islanda, Liechtenstein e proprio la Svizzera, l’unica a non aderire allo Spazio economico europeo, dopo il voto contrario del 1992. Il Regno Unito ne ha già fatto parte fino al 1972, anno dell’ingresso nella Comunità economica europea insieme alla Danimarca. L’accesso al mercato unico da parte della Svizzera è regolato da una serie di accordi bilaterali che riguardano settori specifici. Esclusi il settore bancario e una parte di quello dei servizi, che nel caso del Regno Unito riguardano circa l’80% della sua economia. Dopo il voto contro l’immigrazione di massa del 2014, la Svizzera ha avviato dei negoziati con l’Unione riguardanti il numero di ingressi dei cittadini europei nel Paese, ma in vista del voto Brexit sono rimasti in stand-by e Berna dal prossimo anno potrebbe unilateralmente approvare un piano di riforme.
Il modello balcanico: l’ipotesi più remota – Albania, Bosnia-Erzegovina, Kosovo, Macedonia, Montenegro e Serbia sono firmatarie del cosiddetto Accordo di stabilizzazione e associazione, cioè il primo passo per aderire all’Unione europea. Tale accordo si basa sull’acquis comunitario, ovvero l’insieme dei diritti e degli obblighi che i Paesi Ue condividono, che garantisce l’accesso al mercato unico. È l’ipotesi più remota e a tale proposito il primo ministro albanese Edi Rama ha dichiarato: “Non posso credere che sia nell’interesse del Regno Unito emulare lo status corrente delle relazioni tra Albania ed Europa. Noi stessi non vogliamo lo status quo, perché qualcuno dovrebbe volerlo in Gran Bretagna?”.
Il modello turco: l’unione doganale – Ankara è fuori sia dall’Associazione europea di libero scambio che dallo Spazio economico europeo, ma dal 1996 è in vigore un’unione doganale tra Unione europea e Turchia. Non ci sono tariffe o quote per l’esportazione dei prodotti turchi in Europa, mentre vengono applicate dalla Turchia le tariffe Ue all’importazione di prodotti provenienti fuori dall’Unione. Lo scorso anno il commissario Ue al commercio Cecilia Malmstroem e il ministro dell’Economia turco Nihat Zeybekci hanno avviato un percorso per l’ampliamento dell’unione doganale ai servizi, agli appalti pubblici e ai prodotti agricoli. Il 9 giugno, intanto, si è chiusa la consultazione pubblica lanciata dalla Commissione Ue per raccogliere opinioni e pareri sul futuro delle relazioni economiche e commerciali tra i due partner. In attesa di sviluppi sull’ingresso effettivo della Turchia nell’Unione: il Paese è candidato ad aderire dal 1999.
Il modello Ceta: abbattere i dazi – È l’accordo di libero scambio, non ancora approvato, tra Unione europea e Canada. Il Comprehensive economic and trade agreement, che dovrà essere ratificato dalle 28 assemblee parlamentari delle nazioni della Ue, prevede l’abbattimento del 98% dei dazi tra i due partner ma copre solo parzialmente il settore dei servizi, cruciale per l’economia britannica. Boris Johnson, ex sindaco di Londra, in prima linea nella campagna per il Leave ma sfilatosi dopo la vittoria del referendum, aveva dato sostegno a questa soluzione.
Il modello Hong Kong: Londra indipendente con politica di libero scambio – C’è tuttavia un’ulteriore opzione, la più radicale di tutte. Alcuni brexiteers guardano con favore all’approccio di Hong Kong e Singapore, che hanno unilateralmente adottato una politica di libero scambio, scevra di dazi, sia in entrata che in uscita. Per un Paese che non fa della produzione il suo punto di forza sarebbe un’opzione interessante, e, con adeguati correttivi, potrebbe paradossalmente guadagnare fascino anche tra i londinesi, che in larga maggioranza hanno votato per il Remain. La capitale del Regno si è infatti schierata contro l’isolazionismo, e oltre 175mila persone hanno firmato una petizione su change.org perché Londra si dichiari indipendente, trasformandosi in una città-stato simile ai due esempi del sud-est asiatico. Il sindaco laburista Sadiq Khan, pur non facendosi alfiere della cosiddetta “londependence”, ha già chiesto più autonomia per la capitale, per proteggere affari, ricchezza e posti di lavoro.