È preoccupante e, comunque, imbarazzante, specialmente per chi, avendo dedicato una vita a ricostruire fatti criminali per predicarne il valore penale, abbia maturato la consapevolezza delle ricadute politiche dei processi celebrati in concomitanza di particolari contingenze nazionali, come ad esempio potrebbe essere l’incapacità di governare i fenomeni migratori, quanto accaduto a Fermo, a seguito e a margine della morte di Emmanuel Chidi Namdi, un uomo nigeriano di 36 anni che aveva chiesto asilo in Italia.
Il doveroso rispetto per l’indipendenza di giudizio della magistratura inquirente chiamata a sciogliere i nodi della spinosa vicenda avrebbe dovuto imporre, soprattutto a chi dichiara di avere a cuore la “legalità contro ogni forma di violenza”, di non entrare nel merito sia delle modalità con cui si è prodotto il tragico evento sia delle responsabilità nella causazione dello stesso. Invece, portatori di verità parziali e, in ogni caso, di parte, hanno dato vita ad una sorta di rito ordalico, che se per un verso contribuisce ad ingarbugliare la già intricata matassa, per l’altro rischia di minare la serenità degli inquirenti oggi e quella dei giudici domani, ponendo di fatto una pesante ipoteca sulla stessa credibilità degli esiti ai quali approderà l’accertamento in itinere.
Non è un caso che il processo penale, teso ad accertare il dovere di punire, sia ispirato a programmatica prudenza: la conoscenza umana, che come insegna San Tommaso, diversamente da quella degli “angeli” e delle “anime assunte in Patria”, procede lungo sudate mediazioni, comporta che da uno stato d’ignoranza si passi a quelli, via via, della possibilità, della probabilità e, finalmente, della certezza. Una certezza, peraltro, affatto relativa, poiché conseguita nel rispetto di regole, ispirate al più genuino garantismo, il cui effetto è, però, quello di allargare la forbice tra la verità giudiziaria e quella storica.
Eppure, nel caso del povero Emmanuel, questa prudenza rischia d’essere travolta: se vi è chi, da un lato, cerca d’imporre come definitiva la versione, subito ripresa dai principali media e avallata dalle più alte cariche politiche, di un omicidio a sfondo razziale, ad opera di un “fascista”, il quale avrebbe pestato a morte il giovane migrante solo per il colore della pelle, spingendosi addirittura, in un crescendo di esternazioni, a collegare l’uccisione del povero profugo nigeriano con possibili atti di terrorismo, “non rivendicati”, così da restituire della città di Fermo l’immagine di “un habitat gratuitamente aggressivo, quasi delinquenziale”; dall’altro, invece, vi è chi, facendo leva piuttosto su quanto filtra da ambienti investigativi, in merito a testimonianze, foto, esiti di una visita medico legale sull’indagato e dell’autopsia sul cadavere della vittima, grida alla falsità della “versione di comodo” accreditata dai primi, fino denunciare che, “l’accoglienza interessata detta legge e la viola”, sottolineando, in proposito, che “qualunque cosa si pensi del fenomeno migratorio e delle politiche di gestione dello stesso, è indubbio che ci girano intorno molti, troppi soldi, da una parte e dell’altra del canale di Sicilia” e che, dunque, “proprio per questo motivo, sarebbe opportuno che chi si batte con veemenza per l’accoglienza dei migranti non si occupasse poi della gestione operativa dell’accoglienza stessa. Che viene lautamente remunerata dallo Stato”. Ognuno dei due opposti schieramenti, insomma, sebbene si tratti di una sorta di guerra asimmetrica, stante l’obiettivo squilibrio delle forze in campo, pretende di accreditare la verità della propria narrazione, ciascuno nella dichiarata convinzione, poco importa se in buona o in mala fede, che, per dirla con Boris Vian (L’écume du monde, 1947), “L’histoire est entièrement vraie, puisque je l’ai imaginée d’un bout à l’autre”.
La vicenda, in pieno svolgimento, indurrebbe a riflettere sui concetti di vero e di falso nella storiografia, ma l’esile struttura di un post non consente di ripercorrere un dibattito che ci riporterebbe a Tucidide, alla sua ergon aletheia, ossia l’evidenza degli eventi, e alla akribeia, cioè la capacità di distinguere, discernere, analizzare criticamente testimonianze e documenti.
Meglio accontentarsi, allora, di ricordare, col filosofo stoico Epitteto, che non sono i fatti in sé a turbare gli uomini, ma i giudizi che essi formulano sui fatti, sicché, proprio dalla necessità di modificare quei giudizi nasce l’impulso di creare falsi, magari demonizzando il capro espiatorio, così da farne un archetipo del male. Occhio, dunque, ai “sicofanti”, vera e propria piaga del sistema giudiziario della polis, che rappresentati dai commediografi attici come loschi figuri corrotti e venali, aggressivi ed infidi, continuano a infestare anche la nostra vita comunitaria.
Otello Lupacchini
Giusfilosofo e magistrato
Giustizia & Impunità - 14 Luglio 2016
Omicidio Emmanuel, attenzione a chi dice di avere già in tasca la verità
È preoccupante e, comunque, imbarazzante, specialmente per chi, avendo dedicato una vita a ricostruire fatti criminali per predicarne il valore penale, abbia maturato la consapevolezza delle ricadute politiche dei processi celebrati in concomitanza di particolari contingenze nazionali, come ad esempio potrebbe essere l’incapacità di governare i fenomeni migratori, quanto accaduto a Fermo, a seguito e a margine della morte di Emmanuel Chidi Namdi, un uomo nigeriano di 36 anni che aveva chiesto asilo in Italia.
Il doveroso rispetto per l’indipendenza di giudizio della magistratura inquirente chiamata a sciogliere i nodi della spinosa vicenda avrebbe dovuto imporre, soprattutto a chi dichiara di avere a cuore la “legalità contro ogni forma di violenza”, di non entrare nel merito sia delle modalità con cui si è prodotto il tragico evento sia delle responsabilità nella causazione dello stesso. Invece, portatori di verità parziali e, in ogni caso, di parte, hanno dato vita ad una sorta di rito ordalico, che se per un verso contribuisce ad ingarbugliare la già intricata matassa, per l’altro rischia di minare la serenità degli inquirenti oggi e quella dei giudici domani, ponendo di fatto una pesante ipoteca sulla stessa credibilità degli esiti ai quali approderà l’accertamento in itinere.
Non è un caso che il processo penale, teso ad accertare il dovere di punire, sia ispirato a programmatica prudenza: la conoscenza umana, che come insegna San Tommaso, diversamente da quella degli “angeli” e delle “anime assunte in Patria”, procede lungo sudate mediazioni, comporta che da uno stato d’ignoranza si passi a quelli, via via, della possibilità, della probabilità e, finalmente, della certezza. Una certezza, peraltro, affatto relativa, poiché conseguita nel rispetto di regole, ispirate al più genuino garantismo, il cui effetto è, però, quello di allargare la forbice tra la verità giudiziaria e quella storica.
Eppure, nel caso del povero Emmanuel, questa prudenza rischia d’essere travolta: se vi è chi, da un lato, cerca d’imporre come definitiva la versione, subito ripresa dai principali media e avallata dalle più alte cariche politiche, di un omicidio a sfondo razziale, ad opera di un “fascista”, il quale avrebbe pestato a morte il giovane migrante solo per il colore della pelle, spingendosi addirittura, in un crescendo di esternazioni, a collegare l’uccisione del povero profugo nigeriano con possibili atti di terrorismo, “non rivendicati”, così da restituire della città di Fermo l’immagine di “un habitat gratuitamente aggressivo, quasi delinquenziale”; dall’altro, invece, vi è chi, facendo leva piuttosto su quanto filtra da ambienti investigativi, in merito a testimonianze, foto, esiti di una visita medico legale sull’indagato e dell’autopsia sul cadavere della vittima, grida alla falsità della “versione di comodo” accreditata dai primi, fino denunciare che, “l’accoglienza interessata detta legge e la viola”, sottolineando, in proposito, che “qualunque cosa si pensi del fenomeno migratorio e delle politiche di gestione dello stesso, è indubbio che ci girano intorno molti, troppi soldi, da una parte e dell’altra del canale di Sicilia” e che, dunque, “proprio per questo motivo, sarebbe opportuno che chi si batte con veemenza per l’accoglienza dei migranti non si occupasse poi della gestione operativa dell’accoglienza stessa. Che viene lautamente remunerata dallo Stato”. Ognuno dei due opposti schieramenti, insomma, sebbene si tratti di una sorta di guerra asimmetrica, stante l’obiettivo squilibrio delle forze in campo, pretende di accreditare la verità della propria narrazione, ciascuno nella dichiarata convinzione, poco importa se in buona o in mala fede, che, per dirla con Boris Vian (L’écume du monde, 1947), “L’histoire est entièrement vraie, puisque je l’ai imaginée d’un bout à l’autre”.
La vicenda, in pieno svolgimento, indurrebbe a riflettere sui concetti di vero e di falso nella storiografia, ma l’esile struttura di un post non consente di ripercorrere un dibattito che ci riporterebbe a Tucidide, alla sua ergon aletheia, ossia l’evidenza degli eventi, e alla akribeia, cioè la capacità di distinguere, discernere, analizzare criticamente testimonianze e documenti.
Meglio accontentarsi, allora, di ricordare, col filosofo stoico Epitteto, che non sono i fatti in sé a turbare gli uomini, ma i giudizi che essi formulano sui fatti, sicché, proprio dalla necessità di modificare quei giudizi nasce l’impulso di creare falsi, magari demonizzando il capro espiatorio, così da farne un archetipo del male. Occhio, dunque, ai “sicofanti”, vera e propria piaga del sistema giudiziario della polis, che rappresentati dai commediografi attici come loschi figuri corrotti e venali, aggressivi ed infidi, continuano a infestare anche la nostra vita comunitaria.
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Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Ha ribadito le perplessità sul formato del vertice di Parigi, sull'invio di truppe europee in Ucraina e la necessità di percorrere strade che prevedano il coinvolgimento degli Stati Uniti. Queste le linee, a quanto si apprende, dell'intervento della premier Giorgia Meloni oggi al summit a Parigi convocato da Emmanuel Macron alla presenza del britannico Keir Starmer, del premier olandese, Dick Schoof, del cancelliere tedesco Olaf Scholz, del capo del governo polacco Donald Tusk e del primo ministro spagnolo Pedro Sanchez. All'Eliseo anche il segretario generale della Nato, Mark Rutte e i vertici Ue, Antonio Costa e Ursula von der Leyen.
Meloni, a quanto si apprende, ha sottolineato di aver voluto essere presente per non rinunciare a portare il punto di vista dell’Italia, ma di avere espresso le sue perplessità riguardo un formato che, a suo giudizio, esclude molti Paesi, a partire da quelle più esposti al rischio di estensione del conflitto, anziché includere, come sarebbe opportuno fare in una fase storica come questa. Anche perché, avrebbe rimarcato la premier, la guerra in Ucraina l’abbiamo pagata tutti.
Per l'Italia le questioni centrali rimangono le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, perché senza queste ogni negoziato rischia di fallire. Quindi Meloni avrebbe rimarcato l'utilità di un confronto tra le varie ipotesi in campo, osservando come quella che prevede il dispiegamento di soldati europei in Ucraina appaia come la più complessa e forse la meno efficace. Una strada su cui l'Italia avrebbe mostrato le sue perplessità al tavolo.
Secondo Meloni, a quanto viene riferito, andrebbero esplorate altre strade che prevedano il coinvolgimento anche degli Stati Uniti, perché è nel contesto euro-atlantico che si fonda la sicurezza europea e americana. La premier avrebbe definito una sferzata sul ruolo dell'Europa quella lanciata dall'amministrazione Usa ma ricordando che prima di questa analoghe considerazioni sono state già state fatte da importanti personalità europee. È una sfida, avrebbe quindi sottolineato, per essere più concreti e concentrarsi sulle cose davvero importanti, come la necessità di difendere la nostra sicurezza a 360 gradi, i nostri confini, i nostri cittadini, il nostro sistema produttivo.
Secondo la presidente del Consiglio sono i cittadini europei a chiederlo: non dobbiamo chiederci cosa gli americani possono fare per noi, ma cosa noi dobbiamo fare per noi stessi.
Meloni avrebbe quindi rimarcato come il formato del summit all'Eliseo non vada considerato come un formato anti-Trump. Tutt’altro. Gli Stati Uniti lavorano a giungere ad una pace in Ucraina e noi dobbiamo fare la nostra parte, la sollecitazione della premier italiana. Meloni infine, sempre a quanto si apprende, avrebbe manifestato condivisione per il senso della parole del Vice Presidente degli Stati Uniti Vance, ricordando di aver espresso concetti simili in precedenza. Ancora prima di garantire la sicurezza in Europa, avrebbe sottolineato Meloni, è necessario sapere che cosa stiamo difendendo.
Parigi, 17 feb. (Adnkronos/Afp) - "La Russia minaccia tutta l'Europa". Lo ha detto la premier danese Mette Frederiksen dopo i colloqui di emergenza a Parigi sul cambiamento di politica degli Stati Uniti sulla guerra in Ucraina.
La guerra in Ucraina riguarda i "sogni imperialisti di Mosca, di costruire una Russia più forte e più grande, e non credo che si fermeranno in Ucraina", ha detto ai giornalisti, mettendo in guardia gli Stati Uniti dai tentativi di concordare un cessate il fuoco "rapido" che darebbe alla Russia la possibilità di "mobilitarsi di nuovo, attaccare l'Ucraina o un altro paese in Europa".
Parigi, 17 feb. (Adnkronos) - "Oggi a Parigi abbiamo ribadito che l'Ucraina merita la pace attraverso la forza. Una pace rispettosa della sua indipendenza, sovranità, integrità territoriale, con forti garanzie di sicurezza. L'Europa si fa carico della sua intera quota di assistenza militare all'Ucraina. Allo stesso tempo abbiamo bisogno di un rafforzamento della difesa in Europa". Lo ha scritto su X la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen.