Dopo la fiaba de Lo cunto de li cunti di Basile, la favola di Carlo Collodi. Matteo Garrone dirigerà un film tratto da Pinocchio. Il celebre racconto collodiano è già diventato uno script tra le mani del regista romano. Il work in progress oramai è conclamato. Una frase sul tema a Garrone era sfuggita durante il festival Cinevasioni, poi c’era stata la battuta su Renzi al Salone del Mobile (il premier: “Che film stai facendo?; Garrone: “Sto pensando di girare Pinocchio, tra l’altro tu hai qualcosa di lui”); la voce è poi rimontata con insistenza nelle ultime ore, battuta dall’edizione cartacea di Repubblica a da diversi siti web d’informazione di lingua tedesca.
Il casting sembra essere in corso anche se nulla si sa ancora su dove il film verrà girato e quando. Si stima comunque che il progetto richieda almeno un paio di anni tra preparazione, set e postproduzione, ma qui entriamo nel terreno delle ipotesi. Ciò che invece sappiamo di certo è che Matteo Garrone sta sempre più rarefacendo la propria estetica, impastandola con gli stilemi del fantastico, strada che lo ha portato alla creazione de Il racconto dei racconti, tra pulci giganti, scafandri e mostri marini. I garroniani puri hanno strabuzzato gli occhi. Le giovani generazioni che non conoscevano Garrone, quelle che non avevano mai visto le silhouette deformate dei suoi ‘mostri’ borderline in L’imbalsamatore o Primo amore, hanno subito alzato le antenne. L’autore di Gomorra e Reality oggi staziona tra le pagine del Grillo Parlante e del Gatto e la Volpe. Da lì riprende il suo cinema. E c’è davvero di che attendere con malcelata ansia.
Garrone sta sempre più rarefacendo la propria estetica, impastandola con gli stilemi del fantastico
Oltre lo sceneggiato stupefacente di Luigi Comencini, datato 1972, quello con Nino Manfredi/Geppetto, Gina Lollobrigida/fata Turchina e Andrea Balestri burattino in carne e ossa, il tentativo disastroso di sfiorare l’icona favolistica italiana toccò a Roberto Benigni nel 2002 in pieno delirio narcisistico dovuto al successo mondiale de La Vita è bella. Fu un momento tragico per la carriera cinematografica del comico toscano, tanto che di lì in avanti si registra l’altrettanto terrificante La tigre e la neve (e chi se lo ricordava più?) e nient’altro. Il Pinocchio di Benigni non fece sfracelli a livello commerciale e venne maltrattato dalla critica di ogni angolo del pianeta, ricevendo dopo gli Oscar di qualche anno prima per La vita è bella diversi Razzie Awards.
Oltre lo sceneggiato stupefacente di Luigi Comencini il tentativo disastroso toccò a Roberto Benigni
Insostenibile ai più, le due ore in compagnia dell’allora cinquantenne Roberto con il nasino che si allungava e il vestitino a fiorellini rossi. Pinocchio fu sfida impossibile anche per il trattamento lontano dalla trascrizione letterale benigniana di un altro comico toscano, anch’esso giunto all’apice della notorietà. Francesco Nuti con OcchioPinocchio, anno 1994, fece comunque saltare il banco della produzione Mario e Vittorio Cecchi Gori. Venti miliardi di lire come budget e un incasso che non arrivò a 4. Roba che Cimino con la United Artists per I Cancelli del cielo è stato un pivello. Non che il film dell’ex Giancattivi fosse così indifendibile come per la versione di Benigni (la sceneggiatura di Ugo Chiti e Giovanni Veronesi non era malvagia); solo che Nuti ebbe problemi seri di distribuzione facendo ritardare l’uscita del film di un anno, portandosi dietro un alone di imbarazzante sfortuna che in pratica ne scrisse la fine come regista cinematografico.
Effetto Don Chisciotte: in troppi si avvicinano a un mito letterario e le loro alette si squagliano
È quello che alcuni chiamano l’effetto Don Chisciotte: ovvero in tanti, troppi, registi/sceneggiatori di cinema si avvicinano ad un mito letterario e le loro alette si squagliano. Basti pensare ad Hollywood dove la versione di Pinocchio in stop motion ideata da Gulliermo Del Toro è in stand by da almeno due anni. Ron Howard invece è stato chiamato lo scorso gennaio a sostituire Paul Thomas Anderson nella versione di Pinocchio con attori veri che vedrebbe Robert Downey Jr. nei panni di Geppetto. Insomma, la fiaba collodiana con i suoi carabinieri, il suo circo e la sua moneta sepolta sotto ad un albero dal Gatto e la Volpe e che successivamente diventerà un malloppo di zecchini d’oro – involontaria metafora della bolla speculativa attuale che fa paura – attende la versione Garrone. Auguriamo ad uno dei più importanti cineasti italiani nel mondo di arrivare al capolavoro. La storia insegna che la trasposizione del celebre burattino non ammette mezze misure.