Alla fine l’endorsement non c’è stato. Ted Cruz non ha annunciato il suo appoggio formale a Donald Trump, come molti nel partito repubblicano gli chiedevano. Cruz non si è lasciato alle spalle gli scontri dei mesi scorsi. Non è riuscito a placare l’orgoglio ferito per essere stato sconfitto da un uomo, Trump, che lui disprezza e da cui è disprezzato. Le centinaia di migliaia di voti – controllati da Cruz – andranno con ogni probabilità ad arricchire il bottino elettorale di Trump a novembre. Ma non ci sarà quella mobilitazione di conservatori ed evangelici che una presa di posizione aperta, esplicita, convinta di Cruz avrebbe potuto provocare.
Ieri sera, dal palco della Convention, Ted Cruz si è limitato a congratularsi con Donald Trump per la nomina a candidato. “Io, come tutti voi, voglio vedere i principi del nostro partito prevalere a novembre”. E’ stato tutto quello che Cruz ha avuto da dire. Trump è stato citato per nome appena due volte. L’assenza dell’endorsement, che molti avevano atteso, ha alla fine spazientito i sostenitori di Trump, che hanno cominciato a protestare, a urlare il loro disappunto, a ritmare lo slogan: “Tieni la tua promessa”. Cruz è sembrato sorpreso dalla reazione. Ha balbettato qualcosa, coperto dalle urla di chi lo contestava; è rimasto in silenzio per qualche secondo; ha salutato mentre il boato di protesta nei suoi confronti cresceva. Proprio sulle ultime parole di Cruz, è entrato nell’arena di Cleveland Donald Trump. Gli applausi si sono mischiati alle proteste, in un crescendo confuso e tesissimo che ha abbracciato l’intera arena.
E’ stato un colpo di scena inaspettato e che mostra in modo chiaro che il partito repubblicano non è davvero unito. Se alcuni tra i leader hanno alla fine deciso di appoggiare Trump – ieri sera hanno parlato in suo favore Scott Walker, Newt Gingrich, Marco Rubio (ma solo in un video registrato) – una parte consistente del G.O.P. resta fredda. I Bush hanno deciso di non venire a Cleveland, come pure Mitt Romney, Joe McCain, John Kasich; altri ci sono venuti ma si sono mantenuti piuttosto freddi. Paul Ryan, speaker della Camera, e Mitch McConnell, capogruppo al Senato, hanno nei loro discorsi alla Convention a malapena citato Trump.
E poi, appunto, c’è Ted Cruz. Come gesto distensivo, Trump gli ha concesso la prima serata televisiva nel terzo giorno di Convention, quello prima del gran finale. Ma Cruz – una figura spesso sfuggente, detestata da molti dei suoi stessi colleghi a Washington per la tendenza a far prevalere il personale interesse politico sulla disciplina di partito – è andato per la sua strada. Ha iniziato il discorso citando la figlia di uno degli agenti di polizia ucciso a Dallas; ha accusato Obama di voler aprire i confini per far entrare i terroristi e far uscire i posti di lavoro; ha ricordato che il G.O.P. è il partito di Abraham Lincoln e della lotta alla schiavitù; ha persino riconosciuto che gli Stati Uniti sono il Paese della diversità, dove “New York è diverso dall’Iowa” (in campagna elettorale, da conservatore, aveva criticato “i valori di New York”).
Insomma, il discorso alla fine è apparso più un modo per lanciare la sua candidatura a presidente degli Stati Uniti nel 2020, che l’offerta di aiuto per far vincere il candidato repubblicano nel 2016. La cosa ha fatto infuriare molti dei sostenitori di Trump e ha turbato gli stessi delegati che durante le primarie avevano appoggiato Cruz. “E’ disgustoso quello che Cruz ha fatto. Il partito deve venire sempre prima delle ambizioni personali. Cruz doveva sostenere Donald”, mi ha detto Henry Allen, delegato di Trump della Florida. Johnny Lopez, delegato di Irving, Texas, ha sostenuto nei mesi scorsi Cruz, “il figlio prediletto del Texas” e oggi appare distrutto dall’esito della Convention: “Ho fatto la campagna per Cruz, sono d’accordo con lui su tutto. Ma ora la campagna è finita e dobbiamo tutti metterci a lavorare per Trump. Il nemico è uno e ha un nome: Hillary Clinton”.
Non è andata così. Del resto, in campagna elettorale, Cruz e Trump si sono scambiati molti attacchi al limite dell’insulto. Trump ha dato del “truffatore” a Cruz, accusandolo di tradire la moglie Heidi e alludendo al fatto che il padre di Cruz possa essere in qualche modo coinvolto nell’assassinio di JFK. Cruz ha risposto dandogli del “bugiardo patologico”. I vecchi rancori sono rimasti tutti. Ora ci si chiede cosa può succedere in termini elettorali. Non certo un’imponente fuga di voti conservatori e religiosi – quelli che Cruz controlla – da Donald Trump. In fondo, l’alternativa il prossimo novembre sarà tra Trump e Hillary Clinton, una delle figure più odiate dai conservatori USA. Trump si è poi prudentemente coperto “a destra”, nominando come suo vice un conservatore incallito come il governatore dell’Indiana Mike Pence (ha parlato anche lui, ieri sera, e ha iniziato il suo discorso dicendo di essere “un cristiano, un conservatore e un repubblicano, in quest’ordine”). Di più, nelle scorse settimane scorse Trump ha incontrato in segreto diversi gruppi conservatori, come il Council for National Policy, promettendo importanti concessioni su aborto, matrimoni gay, nomine alla Corte Suprema, nel caso diventasse presidente.
Rimane però l’incognita che il non-appoggio di Cruz porta alla campagna repubblicana. I conservatori e i religiosi potrebbero essere portati a non sostenere con entusiasmo un candidato che hanno sempre considerato con una certa freddezza. In fondo, Trump viene da New York, ha avuto tre mogli e una serie consistente di donne, è stato a favore dell’aborto e non ha mai mostrato eccessivo desiderio di condannare i matrimoni gay. I conservatori di Cruz, alla fine, potrebbero dunque essere portati a stare a guardare le presidenziali 2016. Guardare e non aiutare, in attesa che si presenti la nuova, grande occasione del 2020.