“Io sono il candidato della legge e dell’ordine”. Nel discorso conclusivo della Convention repubblicana di Cleveland, Donald Trump ha dipinto un’America percorsa da crimine, crisi sociale, insicurezza. Ha proclamato di essere l’uomo capace di far uscire il Paese dalla paura; di essere in grado di ridare il lavoro perduto, la prosperità dimenticata. Ha detto di voler combattere le strategie economiche dei democratici, la politica estera disastrosa di Hillary Clinton. Ha promesso la mano dura contro immigrazione e terrorismo; ha dipinto un futuro in cui l’America penserà, prima di tutto, “a se stessa e non al mondo”. In un appello interrazziale e interclassista, Trump si è rivolto ai gruppi sociali più deboli, agli afro-americani, agli ispanici, promettendo di risollevare le loro condizioni di vita e combattere il “sistema” che li ha oppressi. Soprattutto, nel discorso con cui ha accettato la nomination repubblicana alla Casa Bianca, Trump ha decretato la fine del vecchio partito repubblicano e la sua trasformazione in un movimento conservatore e populista. “Io sono la vostra voce”, ha urlato alla fine del suo intervento, poco prima di essere raggiunto dalla famiglia sul palco, mentre migliaia di palloncini rossi, bianchi e blu scendevano sulla folla dei delegati.
Il tema forse più forte di tutto il discorso è stato proprio quello del “law and order”. All’America, soprattutto bianca, spaventata dal riaprirsi della crisi razziale, Trump ha ricordato di essere la persona capace di ristabilire la sicurezza perduta. Quella frase, “legge e ordine”, è stata ripetuta da Trump per ben cinque volte. Il candidato repubblicano ha ricordato che “questa Convention cade in un momento di crisi del nostro Paese” e ha dato delle cifre (non sempre attendibili): il balzo del 17 per cento negli omicidi nelle maggiori 50 nazioni americane (con un aumento del 50 per cento a Washington e del 60 per cento a Baltimore). “Quasi 4000 persone – ha spiegato Trump – sono state uccise a Chicago da quando Barack Obama è salito alla Casa Bianca”. Inevitabile, in questa rappresentazione delle strade americane percorse da criminalità e violenza, il riferimento ai poliziotti morti: a Dallas, a Baton Rouge, a Kansas City, in altre città americane. “Il compito più basilare del governo è difendere le vite dei suoi cittadini – ha detto Trump -. Un governo che non lo fa non è degno di amministrare il Paese”.
Il capitolo dedicato all’ordine pubblico, con toni anche apertamente autoritari, è stato lunghissimo, reminiscente di quello che disse Richard Nixon alla Convention repubblicana del 1968. Allora, Nixon promise di “restaurare l’ordine e il rispetto per la legge in questo paese”. Più tardi, in uno spot televisivo durante la campagna elettorale, Nixon disse: “Lasciateci dire che il primo diritto civile di un americano è essere libero dalla violenza. Vi prometto che l’ordine tornerà negli Stati Uniti”. A differenza di Nixon, che auspicava l’unione di tutti gli americani nel ristabilire l’ordine, Trump ha però ancora una volta sottolineato il suo carattere di “uomo della Provvidenza”, capace di fare quello che gli altri non sono stati sinora capaci di fare: “Ho un messaggio per voi – ha detto -. Con il 20 gennaio 2017, quando sarò presidente degli Stati Uniti, il crimine e la violenza che affligge oggi la nostra nazione finirà. La sicurezza ritornerà”.
Lo stesso tono allarmista – e la stessa volontà di porsi come salvatore della “nazione afflitta” – Trump li ha messi quando ha affrontato il tema del terrorismo e dell’immigrazione illegale. Trump ha ricordato il massacro di Nizza, in Francia. Ha parlato di un’America travolta da una “massiccia ondata di rifugiati siriani” (con la Clinton che chiederebbe, sempre secondo Trump, un aumento del “550 per cento degli arrivi di siriani negli Stati Uniti”. Anche questo dato non lo si ritrova nel programma della candidata democratica). Di fronte ai rischi che il radicalismo islamista pone, agli Stati Uniti e al mondo, Trump ha detto: “Chiunque appoggi la violenza, l’odio e l’oppressione non è benvenuto nel nostro Paese e non lo sarà mai”. Trump non ha però ripetuto la proposta di impedire ai musulmani l’entrata negli Stati Uniti. Forse per il timore di essere ancora una volta bollato come razzista, in un momento delicato della campagna elettorale, ha ribadito la sua proposta senza però citare direttamente i musulmani: “Dobbiamo immediatamente sospendere l’immigrazione da qualsiasi nazione che è compromessa col terrorismo, fino al momento in cui un sistema di verifica non verrà posto in atto”.
E’ invece tornato – e non poteva non essere così, in un discorso tutto segnato dalla contemplazione del disastro e dell’insicurezza che travagliano l’America – il tema del muro con il Messico. “Costruiremo un grande muro al confine”, ha detto Trump. “Non ci saranno più città santuario, luoghi dove l’immigrazione illegale può tranquillamente prosperare”. Il tema della lotta all’immigrazione clandestina si è collegato, nel discorso di Trump, a quello del commercio, delle insicurezze economiche, dei milioni di posti di lavoro che si sono in questi anni trasferiti all’estero. Questo è stato l’altro capitolo in cui il magnate newyorkese si è allontanato dalla tradizione e dal pensiero più tradizionale del partito repubblicano. Qui Trump si è presentato come il leader che metterà fine a tutti quei trattati di commercio – anzitutto il Nafta – che hanno indebolito i lavoratori americani. “Ho visitato i lavoratori licenziati dalle loro industrie, e le comunità schiacciate dai nostri terribili e ingiusti trattati di commercio – ha spiegato Trump -. Questi sono gli uomini e le donne dimenticati del nostro Paese. Gente che lavora duro, che non ha voce”. La rivendicazione degli “esclusi” e dei “dimenticati” si è presto estesa anche alle minoranze: “Decenni di immigrazione record hanno prodotto salari sempre più bassi e tassi di disoccupazione sempre più alta per i nostri concittadini, soprattutto per gli afro-americani, per gli ispanici. Torneremo ad avere un sistema di immigrazione che funziona, ma che funziona soprattutto per gli americani”.
In questo porsi come rappresentante della nazione, al di là di differenze di classe, reddito, educazione, etnia, Trump ha espresso forse l’elemento centrale della sua proposta politica, diversissima da quella tradizionale, pro-business, liberista, globalizzata del vecchio partito repubblicano. La stessa forza populista, che è annullamento di storia, differenze, tradizioni, Trump l’ha mostrata in altri punti del discorso. Ha detto di essere il difensore dei diritti delle persone omosessuali (e i delegati hanno applaudito; è stato uno sdoganamento delle questioni LGBT che mostra che anche il popolo repubblicano è cambiato); ma ha anche detto di essere debitore agli evangelici, e ha omaggiato la National Rifle Association, la lobby delle armi. In questa capacità di trasmettere un messaggio che va oltre le ideologie, Trump ha in fondo liquidato gli ultimi decenni di politica e strategie del partito repubblicano (non a caso buona parte della classe dirigente del G,.O.P. ha preferito non farsi vedere a Cleveland).
Forte, ovviamente, in molti punti feroce, la critica cui Trump ha sottoposto Hillary Clinton. “E’ il candidato delle lobby, degli interessi particolari, che finanziano la sua campagna e la Clinton Foundation”, ha detto Trump, che ha anche ricordato quello che, a suo giudizio, è il disastro ottenuto da Clinton nel suo periodo da segretario di stato: “Prima che arrivasse, Egitto, Iraq, Siria, erano Paesi relativamente tranquilli. L’Isis non esisteva. Dopo il suo passaggio, il mondo è crollato. E’ una criminale”, ha scandito Trump.
La conclusione del discorso è stata appunto dedicata tutta al tema della presenza americana nel mondo. “L’America viene prima, viene prima di tutto” ha urlato per due volte Trump. “L’America viene prima della globalizzazione”. Pur promettendo di lavorare con gli alleati, anzitutto con Israele, Trump non ha nascosto che la sua America sarà prima di tutto impegnata a casa, a difendere i propri interessi, e non sarà più il “gendarme del mondo”. La conclusione, dopo la rappresentazione di un Paese devastato da paure e crisi, è stata invece di di speranza. “A tutti gli americani, stasera, in tutte le città e in tutti i villaggi, faccio questa promessa: restituiremo la grandezza all’America. Restituiremo l’orgoglio all’America. L’America tornerà sicura. L’America tornerà grande”.