Oggi sul mio blog si affronta ancora il tema della comunicazione sui media con una riflessione di Lorenzo Gasparrini, attivista antisessista.
Cosa aspettano giornalisti e giornaliste a sottoscrivere una “carta” sul linguaggio di genere?
L’occasione è l’ennesimo articolo nel quale un femminicidio viene raccontato con un linguaggio disinformato, tendenzioso e giudicante, pubblicato sul quotidiano on line La Provincia di Varese, a firma di una gioranalista donna – a ulteriore riprova che il sessismo non è una questione solo degli uomini. Lo è anche di tanti professionisti, come quelli dell’informazione, che non sanno riconoscere la violenza di genere. Il linguaggio e i contenuti adoperati dalla cronista hanno suscitato forti proteste sul web.
In questo modo si fanno danni molto seri, nell’opinione pubblica: si giudica prima dei tribunali, si diffonde un’idea sbagliata dei femminicidi e di cosa siano. Ancora nel 2016, dalla stessa giornalista citata sopra dobbiamo leggere continue giustificazioni di un reo confesso. Non spiegazioni o circostanze: giustificazioni. E anche la beffa: «Ha vinto ancora lei. Alla fine è riuscita a distruggermi la vita», dice l’assassino. Bella vittoria, adesso che è morta, chi non vorrebbe avere vinto come lei?
Le scuse, di Virginia Lodi, direttrice del quotidiano, che ha risposto con un editoriale alle critiche, come in questo caso, servono a poco: quando ci si scusa con una frase come «il rimprovero è di prevenzione verso la vittima, il che non era certo nelle intenzioni e, a nostro avviso, non lo è neppure nei fatti, ovvero negli articoli pubblicati» si dimostrano due cose: non si è capito che il problema non è la “prevenzione verso la vittima”, ma l’ignoranza del modo di parlare di questi avvenimenti, per cui serve una specifica preparazione; e che non ci si vuole scusare davvero. Se si dice che questa ignoranza non c’è nelle intenzioni e nei fatti, allora queste sono scuse vuote.
Non si tratta di dare ragione a “le femministe” – qualunque cosa siano nelle parole di chi le tira sempre in mezzo. Si tratta di professionisti che non seguono le raccomandazioni della Federazione internazionale dei giornalisti (IFJ) per l’informazione sulla violenza contro le donne (qui in italiano), nello specifico le raccomandazioni numero 2, 6, 7, 10. In più in Italia è uscito ormai da tre anni il libro di Lipperini e Murgia “L’ho uccisa perché l’amavo”(Falso!) ricco di dati, numeri e fatti inconfutabili; e da più anni ancora il lavoro dell’avvocata Barbara Spinelli, facilmente recuperabile in rete, documenta la realtà sul femminicidio e sul modo di trattarlo dai media italiani. Nessun professionista dell’informazione può seriamente pensare di essere ancora non aggiornato su questi argomenti, anche perché molti loro colleghi e colleghe – come quelle di GIULIA – si adoperano in campagne di informazione. In più, ci sono femminismi che da decenni dicono cose molto semplici e reali, come: i giornalisti dovrebbero formarsi su questi argomenti dal personale dei centri antiviolenza, che hanno le competenze più adatte a spiegare perché un certo linguaggio può colpire o ammazzare le persone un’altra volta.
A questi fenomeni già molto noti se ne aggiungono altri, al limite del grottesco: intrattenitori radiofonici che, non sapendo fare altro che usare un linguaggio sessista, si difendono da più che legittime accuse sostenendo che loro non sono giornalisti, fanno satira e invocano la libertà di stampa. Mentre invece i giornalisti “veri” titolano mostruosità come “FROCI E PERVERTITI VIOLENTANO 17ENNE” mescolando con prepotente ignoranza omosessualità e pedofilia; e rinnovando l’ignoranza il giorno dopo, quando titolano “SI INDIGNANO PER IL TITOLO MA NON PER LE VIOLENZE”, accusando chi gli fa notare la loro ignoranza di essere amici dei violentatori.
Quindi la situazione è: chi non è giornalista si difende dicendo che non è giornalista, chi è giornalista si difende dicendo che è giornalista. In entrambi i casi, nessuno dimostra di voler capire che servono un minimo di competenze per parlare di questioni di genere. Perché i giornalisti, su altri argomenti, si sono dati dei regolamenti molto rigidi proprio per non dire cose scorrette e violente: la carta di Treviso sui minori, la carta di Roma su rifugiati e migranti. A quando la carta di Dovevipare per scrivere decentemente sulle questioni di genere?
È un problema anche di tutti gli uomini etero, perché è proprio grazie a gente che parla su giornali, radio e tv di cagne e croccantini che tutti gli uomini etero sono considerati generalmente degli stronzi. È un problema anche di tutti gli uomini etero, perché è proprio chi pensa che su certe cose le donne dovrebbero farsi una risata che legittima le donne a non farsela per niente. È un problema proprio di tutti gli uomini etero non essere raccontati come una massa di repressi killer potenziali che per “una goccia che fa traboccare il vaso” ammazzano senza pietà.
A voi va di essere raccontati così? A me no, perché chi racconta le cose in questo modo sta dicendo che tutti gli uomini sono potenziali assassini. Se pensate di esserlo, curatevi in tempo, ma dato che invece non credo proprio sia così, ma marciamo a un femminicidio ogni due giorni, forse un problema di genere tra gli uomini etero esiste. Non sono i femminismi a dire che gli uomini sono tutti potenziali assassini, ma chi ancora straparla di “raptus” e di bravi ragazzi, onesti lavoratori, vicini irreprensibili che ammazzano all’improvviso.
Tanti femminismi invece raccontano da decenni di rapporti e relazioni dominati da lotte per il potere, di uomini che non sanno gestire né una relazione né i loro desideri perché abituati solo a relazioni di potere e a scambiare i desideri per diritti – una chiave migliore per comprendere il perché di tante violenze, che accadono non per caso né improvvisamente. Ma di questo non scrive tutti i giorni mai nessuno, perché non ci sono né competenze né volontà di andare al di là di stereotipi, luoghi comuni e pseudopsicologia da quattro soldi. Scrivono di donne che se la cercano, di froci e pervertiti, di cagne e croccantini.
E allora che cosa aspettano giornalisti e giornaliste a sottoscrivere una “carta” sul linguaggio di genere? Aspettano che in tanti la chiedano. Ma sarà impossibile finché anche gli uomini non capiranno che converrebbe a tutti loro.
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