Un lavoro basato sull’interazione continua con il prossimo può rappresentare una forma di protezione dall’Alzheimer. A fare la differenza la complessità delle relazioni interpersonali, che rende il cervello più resiliente al declino cognitivo tipico della malattia. Avvocati, insegnanti, medici alcune tra le categorie più avvantaggiate. Lo sostengono i ricercatori Usa dell’Alzheimer disease research center, nel Wisconsin, in uno studio presentato a fine luglio 2016 all’Alzheimer’s association international conference (Aaic) di Toronto, un meeting che riunisce ogni anno i principali esperti del settore. “Lavorare con le persone, piuttosto che con le cose o i dati, e interagire con gli altri in tempo reale, richiede un intenso impegno cerebrale – sottolinea Ozioma Okonkwo, primo firmatario della ricerca -. Il cervello funziona così: o lo si usa o lo si perde. E, se lo usiamo molto, lo aiutiamo anche a sostenere le ingiurie del tempo”.
L’Alzheimer è la più comune forma di demenza. Le sue origini sono ancora in gran parte ignote. Stando alle statistiche dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), colpisce nel mondo quasi 48 milioni di persone, oltre 600mila solo in Italia. Un’emergenza silenziosa, gestita nel nostro Paese sempre più tra le mura domestiche, e quasi interamente a carico delle famiglie, sulle cui spalle grava il 73% degli 11 miliardi di spese legate a questa patologia. La stima è contenuta in un’indagine sull’impatto economico e sociale della malattia di Alzheimer realizzata dal Censis insieme all’Aima (Associazione italiana malattia di Alzheimer). In Italia, secondo il report, nella metà dei casi sono i figli a occuparsi dei malati di Alzheimer, il 38% di loro ha, invece, il supporto di una badante. I malati seguiti da un centro pubblico sono il 56,6%, dieci punti percentuali in meno rispetto al 2006. E il numero dei pazienti, in seguito all’invecchiamento della popolazione, è destinato ad aumentare. In base alle previsioni degli esperti dell’Adi, l’Alzheimer’s disease international, nel 2015 sono stati oltre 9,9 milioni i nuovi casi di demenza nel mondo, uno ogni 3,2 secondi. E, per l’Oms, nel 2050 il loro numero potrebbe superare i 130 milioni.
Sono queste le cifre con le quali si stanno confrontando gli scienziati riuniti a Toronto (da dove arriva anche la notizia di un farmaco che sembra rallentare la malattia) per fare il punto sui progressi della ricerca, soprattutto sulla diagnosi precoce. Proprio su quest’ultimo fronte, una delle proposte emerse dal meeting è mettere a punto una sorta di pre-diagnosi dell’Alzheimer attraverso una lista di una trentina di quesiti che, anni prima della manifestazione della malattia, possa aiutare a mettere a fuoco i possibili segni premonitori della sua comparsa. E individuare, così, le persone a rischio, ancor prima che manifestino i primi sintomi legati alla perdita di memoria. “Oltre al declino della memoria, alcuni cambiamenti comportamentali come ansia, frustrazione, incapacità di esprimersi con chiarezza, confusione e disorientamento possono rappresentare i primi segni di una futura demenza”, sottolinea Maria Carrillo, neuroscienziata dell’Alzheimer’s Association.
Nel corso dei lavori del meeting canadese, gli esperti hanno dato un nome alla nuova condizione che può nel tempo sfociare nell’Alzheimer, definendola “Mild behavioral impairment” (Lieve invalidità comportamentale). “Sappiamo ormai da anni di ricerca che l’Alzheimer inizia come un problema di comportamento e personalità, non di memoria come generalmente ritenuto”, spiega Nina Silverberg, direttrice dell’Alzheimer’s disease centers program presso il National institute on aging Usa. “La verità – conclude Zahinoor Izmail, neuropsichiatra dell’Università di Calgary – è che i cambiamenti emotivi e comportamentali nei malati sono spesso sottostimati, e possono rappresentare un sintomo fantasma della demenza”.