“CARISSIMA MARTINA” – Un urlo dalla gabbia. Il sequestro di un artista. “Io sto molto male, vorrei averti vicino e non capisco perché non torni ancora”. La Crocifissione di Guttuso. “I corvi mi attorniano e i miei momenti di lucidità sono sempre più rari”. La paura: “Non mi fanno telefonare. Fabio mi ha parlato di adozione e temo mi faccia firmare carte compromettenti in un momento di mio ribasso”. Poi l’illusione. Dipinta senza colori. Più nero che bianco: “Mi dispiace dirti queste cose, ma se tu mi fossi vicino sarei capace anche di guarire. Sono sempre in attesa di vederti entrare, perché non vieni, amata mia?”. L’ultima lettera di Guttuso a Marta Marzotto fu scritta clandestinamente da un uomo provato, consegnata in fretta al portiere Aldo Torroni e spedita da mano anonima alla procura di Roma quando il pittore, ucciso da un tumore ai polmoni il 18 gennaio 1987, era morto da mesi.
Sopra la nicchia marmorea del suo studio, nel giardino pensile di Palazzo del Grillo, quel giorno pioveva. Rileggendola in un albergo di Milano con gli stucchi bianchi, le stanze a tema e i segni della storia (foto di Verdi, Hemingway, Visconti) l’indignazione di Marta non soffre il disincanto delle stagioni. Guttuso, protetto da un cordone sanitario, minato dalla malattia e dalla scomparsa della moglie Mimise (il 5 ottobre 1986) non incontrava gli amici di sempre da settembre. Cento giorni di vuoto, sospetti, stranezze in cui, giura Marta Marzotto, il principe degli atei fu convertito al cattolicesimo da un fitto circo di “carcerieri”. Al suo capezzale Monsignori e politici. Acquasantiere e diavoli rossi. Monsignor Fiorenzo Angelini e Andreotti (presenti a una messa natalizia a casa Guttuso, a soli 20 giorni dall’addio) Paolo Bufalini e Tonino Tatò.
LA CONVERSIONE E IL FUNERALE – Un finale apparentemente eterodiretto troppo simile, secondo Marta Marzotto, a quello di Curzio Malaparte: “Morto in clinica con due comodini ai lati de letto. Sul primo un’istantanea di Mao e sull’altro il ritratto di Padre Virginio Rotondi”. Sulla presunta conversione di Guttuso e sul grottesco funerale, metà scomposto sabba ieratico, metà parata vecchio Pci, vergò passi durissimi Giorgio Bocca: “Chi di noi insiste a confondere il buon gusto con il rispetto di se stessi ha assistito umiliato più che stupefatto a uno spettacolo di losca volgarità: vecchi arnesi dello stalinismo e del clericofascismo che si ritrovano al capezzale del moribondo. Tatò, Bufalini, Andreotti, Monsignor Angelini (…) e mancava per forza carceraria maggiore il faccendiere Pazienza e simili custodi dei segreti vaticani …”. Guttuso dentro Palazzo del Grillo, con i suoi tormenti, gli psicofarmaci, l’assenza da sè. E fuori, i compagni di una vita. Lasciati ai margini. Adele Cambria, Lina Wertmuller, Lucio Villari, Sandra Carraro, i due Alberto, Arbasino e Moravia e donna Marta, rinnegata in un istante: “Mi impedirono di realizzare il suo desiderio, assisterlo nel supremo momento. Per questo ho odiato. Per questo non perdono”. Con Guttuso furono 20 anni di relazione quasi mistica. Cuore e testa. Testa e cuore. Marta la musa. L’ispiratrice. L’archetipo. Madre, amante, figlia, modella. Con Renato da Bagheria si erano conosciuti nel’ 59, rivisti nel’ 67, persi l’uno per l’altra poco dopo. Lei, ex povera, al centro del mondo patriarcale dei Marzotto. Un universo a parte sposato nel ’ 54. Umberto, il figlio di Gaetano, abbracciato in tight a Marta Vacondio. Cognome profetico. La favola si alternò alla finzione sociale e lasciò presto spazio all’equilibrismo. Marzotto e Guttuso si sfiorarono a una festa. “Sono una sua grande ammiratrice”. Armato di Black label, Renato ricambiò: “Dal prossimo minuto diventerò suo grande ammiratore anch’ io”. Seguirono viaggi, creazioni, litigi e passeggiate sulla Piazza Rossa. Testimoniati in decine di affreschi e migliaia di lettere: “Il mio pensiero non ti lascia perché io vivo del pensiero di te, sono avvolto in una dolce nuvola d’oro che si chiama Marta e fuori da questa nuvola mi sento solo e sperduto”. Atti d’amore. La melodia di un libro pronto da un anno che nel sempre vigile Medioevo italiano, suona un silenzio inquietante. Si intitola “Marta”, l’ha scritto l’omonima Marzotto con l’aiuto di Laura Laurenzi, mal’editore Mondadori, a disagio con la diffida dei legali di Fabio Carapezza (l’erede adottato da Guttuso in punto di morte) aspetta Godot. È triste, ma non strano perché “Marta”, accompagnato dai dardi di Guttuso, non è solo un disarmante epistolario sulla magìa dell’eros ma anche e soprattutto, la parabola biografica di un’irregolare. In questa apologo sulla censura, tra appropriazioni indebite, divieti, burocrazie e ingiunzioni, si ammanettano le parole di Guttuso per processare un’intenzione. Quella di Marta Marzotto è non arrendersi. “Non c’è donna che non sogni di ricevere doni del genere. Dopo 40 anni non posso divulgare i sogni che Renato mi dedicava e non capisco il perché. Quando morì, le lettere vennero sbattute ovunque. Giornali, settimanali, riviste. Creandomi danni enormi e devastando il mio matrimonio. Avevo deciso di invecchiare vicino a Umberto, ma lo scandalo rese la situazione ingestibile”. Così mentre Mondadori tituba (la proprietà delle missive è di chi le riceve, ma anche dell’erede patrimoniale) e la libertà di stampa avvampa, Marta Marzotto promette: “Lo farò uscire comunque, a costo di spostarmi in India”. Pietàl’è morta. A occhio, non rinascerà. Tutto dipende, appunto, da Fabio Carapezza, l’ex segretario dell’artista, figlio di un suo vecchio amico, adottato 25 anni fa con una procedura inedita e mai più ripetuta, in soli 8 giorni. E con un testamento redatto “in circostanze dubbie”e alla presenza di un avvocato e di un commercialista: “Non quello di Guttuso – riflette Marzotto –, ma il figlio del direttore della Banca che ospitava il caveau da dove erano spariti lettere e disegni che Renato mi aveva lasciato”. Sull’atto, datato 14 gennaio ’ 87 (a sole 72 ore dal decesso) la firma testamentaria di Guttuso che lungo l’arco della violenta battaglia giudiziaria due diversi periti grafologici (Mento, Marchesan) e un altro luminare del settore, De Marco, si incaricarono di dimostrare apocrifa. Fittizia: “La probabilità che quella firma sia falsa è così elevata da rasentare la piena certezza”. La batteria di magistrati che si occupò della vicenda era contigua a un certo universo. Metta, Squillante, Verde. Amici di Previti e Berlusconi. Nomi coinvolti in oscure vicende osservate nello scomodo ruolo di accusati. A finire alla gogna fu però Marta. Carapezza venne assolto dall’accusa di circonvenzione di incapace nata da una denuncia di Mario Appignani, Cavallo pazzo, che per primo aprì il caso. Palazzo del Grillo venne sbarrato anche a lui. Appignani superò le barriere e manifestò sgomento per aver visto-riferì – Guttuso legato a un letto, semincosciente. I giudici dubitarono e, ultimo sfregio, nella requisitoria del togato Mario Bruno trattarono la Marzotto come una prostituta. La summa del peccato: “È stata lautamente ricompensata anche per prestazioni intime”. Una pagina giudiziaria di rara volgarità che convinse Alberto Dall’Ora, sulla prima del Corriere, a un’esplicita difesa: “Può il giudice insultare un libero cittadino?”.
UN AMORE SBOCCIATO NEL 1970 – Anche per questo, pur avendo già spiegato fino allo sfinimento che dell’eredità Guttuso non le “interessa nulla” Marzotto riempie l’aria di rabbia giovane anche a 80 anni. Si è presentata a un appuntamento lungamente rimandato con saettante preparazione. Eloquio sicuro. Decine di fogli, bozzetti, sentenze, disegni. La storia senza nascondigli. Quella che non passa la mano. Più della battaglia contro la fibrosi cistica che le strappò la figlia Annalisa, dell’amicizia con i capi di Stato o dell’iperattività che ancora la proietta sul mappamondo, Marta è rimasta fedele a un’idea. Quella di riannodare il filo tra il raziocinio e l’affetto. Pubblicare le lettere. “Ne ho diritto”. E avere per sé i tanti “ti amo” che Guttuso, da grafomane impazzito, le recapitava a ritmo dannato. “Anche 20 al giorno”. L’insensatezza della proibizione la turba. Recita i versi di Eliot che Renato le dedicava: “Ci sarà tempo per uccidere e creare / tempo per te e tempo per me / e tempo anche per cento indecisioni / e per cento visioni e revisioni”. Placa le increspature con un altra poesia. D’annunzio: « Tutta la vitaè senza mutamento / Ha un solo volto la malinconia. / Il pensiero ha per cima la follia / E l’amore è legato al tradimento ». Nella delicatezza della situazione, le famiglie Guttuso e Marzotto salvarono il rispetto. Tutti sapevano, nessuno eccepiva. Nel caleidoscopio refrattario alla monogamia di “due persone corteggiate, ma legate da un’unione saldissima” era possibile. Marta si divideva. Si scindeva. Casa Guttuso e Valdagno. Sempre sul trapezio. Senza recinti. La famiglia, i rimorsi, gli slanci, l’incontro con il “rivoluzionario da salotto” Lucio Magri, la gelosia di Guttuso e la morale comune che accettò ogni piroetta e tacque fino a quando il pittore avrebbe potuto difenderla. Dopo, sulle spoglie di un funereo compromesso storico che ancora la turba: “Guttuso fu vittima dei predatori di cadaveri”, Marta Marzotto tornò a essere solo la signora Vacondio. Tra le due chiese, la sua eresia meritava una punizione. Scia-scia l’aveva avvertita: “te la faranno pagare”. Fu buon profeta. Colpi bassi. Ipocrisia generalizzata. Divorziò da Umberto con la pelliccia dell’anatema sulle spalle e i moralisti alle costole. Se Marta apre gli occhi vede ancora Guttuso: “Lo sguardo perso, il corpo senza peso, un codino dietro la testa. Alcool, medicinali, abbandono. Lo sorreggevano in due. Era finita”. Marzotto si trovò sola e l’ex impiegato del Viminale Carapezza, dovette affrontare le cause promosse (invano) da Marta e dai nipoti di Mimise e Renato, i Dotti. Prevalsero i nomi in ballo, “le personalità”. Tutti d’accordo nell’affermare che conversione e adozione di Carapezza (“Guttuso lo chiamava questurino” graffia Marzotto) non fossero precostituiti. Le interrogazioni parlamentari (Almirante chiese all’aula perché si permettesse la svendita di un immenso patrimonio statale) divennero carta da macero e dopo qualche miseria: (“Marta non sopporta la ferita narcisistica dell’abbandono”) trionfò l’oblìo. “Andreotti ordinò di chiudere ma due giudici, Iori e Marini, pur di non ubbidire si dimisero”. Non ride. È serissima. L’ironia abita altrove, distante dalla sofferenza di quest’Iliade infinita, dalle parti della quartina che Gassman le dedicò: “Un’allegra bellezza è nel tuo fato / dio ti conservi il meritato e bel culo / che in vita e in arte ti abbiamo ammirato”. Marta desidera fare ordine. Riequilibrare un arbitrio. Dimenticare le grevi affermazioni di Emanuele Macaluso: “Se Guttuso voleva chiamarla bastava alzasse il telefono”. “Non mi fanno telefonare” scrisse il pittore a Marta. E ancora: “Quando ti ho lasciata sono andato a una riunione con il grande gobbo che vuole farmi passare alla Dc”. Del più importante pittore del dopoguerra italiano, del trasporto folle e iconoclasta che lo legò all’arte, alla vita e a Marta Marzotto: “Tu degna e cosciente, io smarrito e vile” le diceva nel ’ 73, rimangono Ossi di seppia. Frammenti di un discorso amoroso. Un mosaico imperfetto in cui ai tasselli originali, in un voluto depistaggio, si aggiunsero, imitazioni e interpolazioni. Fu una storia “alta”. L’invidia la trascinò in fondo al pozzo. Sul divano Marta si muove. I capelli biondi, la luce di ieri. Accesa. Ancora. “Quis amat valeat / Perit qui nescit amare”. Glielo scrisse Guttuso disegnando un cuore a fondo pagina. La vita è per chi ama ma non sempre trova una cornice.
Da Il Fatto Quotidiano del 10 aprile 2012