Con i primi giorni di campagna elettorale USA, si definiscono meglio le strategie dei due schieramenti. Rispetto al passato, ci sono novità importanti. L’entrata in scena di Donald Trump, e dinamiche economiche e culturali di più lungo periodo, hanno infatti fatto saltare l’alternativa classica destra/sinistra, repubblicani/democratici. I vecchi partiti, con le loro tradizionali appartenenze ideologiche, sono sempre meno definiti. Le aggregazioni tradizionali di interessi e gruppi sociali sono al tramonto. Quello che abbiamo, a questo punto, pare uno scontro tra la riforma/conservazione di Hillary Clinton e la reazione/rivoluzione di Donald Trump.
Da Filadelfia l’immagine di un partito bifronte
Partiamo dai democratici. La Convention di Filadelfia ha mostrato un partito bifronte. Da un lato, la piattaforma adottata è una delle più progressiste mai approvate nella storia democratica. Tra i punti qualificanti, ci sono l’aumento dei minimi salariali federali a 15 dollari, l’adozione di regole più stringenti in tema ambientale, l’abolizione della sentenza Citizens United (per limitare il potere dei soldi in politica) e un controllo più stretto “sui comportamenti illegali di Wall Street”, l’allargamento del diritto all’aborto, la legalizzazione per milioni di immigrati, la fine del sistema di incarcerazione di massa, una legge sul controllo delle armi, l’esportazione della battaglia per i diritti LGBT fuori degli Stati Uniti, in tutti quei Paesi in cui gli omosessuali sono perseguitati.
Da questo punto di vista, la discesa in campo di Bernie Sanders e la battaglia delle primarie hanno sicuramente avuto un effetto importante. La necessità di superare le divisioni e recuperare almeno una parte dei delegati di Sanders hanno orientato il partito in senso più decisamente progressista rispetto alle posizioni iniziali di Hillary Clinton. C’è però il rovescio della medaglia. Se il programma è andato a sinistra, i simboli, le immagini, la retorica dei giorni della Convention sono stati quelli di un partito decisamente conservatore.
Per quattro giorni, a Filadelfia, abbiamo assistito all’esibizione di uno sfrenato nazionalismo. Migliaia di bandiere a stelle e strisce continuamente sventolate. Cori “U-S-A”ad accogliere ogni intervento. Il generale John Allen e decine di veterani introdotti sul palco al battito della marcia militare. I continui riferimenti all’America “nazione più grande sulla terra”. La citazione da parte di Barack Obama della frase di Ronald Reagan sulla “shining city upon a hill”. La retorica militare è andata a braccetto con quella familiare. Michelle Obama si è commossa citando le sue bimbe che giocano col cane sul prato della Casa Bianca. I valori del matrimonio e dei figli sono diventati un leit-motiv ogni volta che si è parlato di diritti gay.
L’osservatore capitato per caso nel grande bacino della Wells Fargo avrebbe potuto, in molti momenti, pensare di essere nel pieno di una Convention repubblicana. Il nazionalismo che abbiamo respirato a Fialdelfia è infatti qualcosa di più del tradizionale patriottismo che informa e nutre l’esperimento democratico americano. Il nazionalismo dei democratici di Filadelfia si ispira piuttosto all’eccezionalismo americano, ai diritti/doveri della sua superiorità e supremazia sul mondo, al riconoscimento della differenza americana come un lascito divino ancor prima che umano – cosa peraltro evidente anche nel discorso finale di Hillary Clinton, con i suoi riferimenti a un esercito forte e dislocato nel mondo.
La svolta conservatrice del partito non è solo una questione di simboli. Tim Kaine, scelto da Clinton come suo vice, è a favore della Trans-Pacific-Partnership, per misure di deregulation finanziaria e ha appoggiato la “Right To Work”, la legge della Virginia che indebolisce il sindacato. Nel 2005, peraltro, Kaine si dichiarava orgogliosamente “conservatore”. La stessa cosa faceva Hillary Clinton nel 1995, quando in un’intervista a NPR diceva: “Sento che i miei principi politici sono radicati nel conservatorismo in cui sono stata educata”.
Il fatto è che, in modo abbastanza chiaro, i democratici corrono quest’anno con un progetto politico costruito per piacere anche a indipendenti e settori di repubblicani moderati che non se la sentono di votare Trump. Assicuratisi, con le aperture a Bernie Sanders, il consenso di gran parte del mondo progressista, i democratici guardano appunto a destra. E presentano Trump come “il demagogo cresciuto in casa” (l’ha detto Barack Obama), come “l’uomo che non può disporre del nostro arsenale nucleare (l’ha detto Hillary Clinton), come il pericoloso fautore dell’“uomo solo al comando” (l’hanno detto tutti). L’insistenza sugli aspetti autoritari del disegno di Trump è fatta apposta per spaventare i moderati e richiamarli sotto l’egida democratica: cui il ticket Clinton/Kaine offre esperienza, cauto riformismo, nazionalismo, conservazione dello status quo, una politica militare forte. Appunto, quel riformismo conservatore, che tutela il senso di comunità e l’eccezionalismo americano, che Clinton ha offerto nel discorso finale della Convention.
La restaurazione autoritaria di Trump
Donald Trump sta esattamente dall’altra parte. Il suo appello diretto agli elettori, senza l’intermediazione del partito o di altri corpi intermedi, parte da una constatazione: che il presente, lo status quo, sono “manipolati”, piegati agli interessi dei più ricchi e forti. Quindi, da abbattere. Milo Yiannopolous, lo scrittore e supporter del magnate repubblicano, ha così risposto alla domanda su cosa vogliono gli elettori di Trump: “Vogliono far crollare tutto”. L’intento iconoclasta è accompagnato da un disegno di forte restaurazione autoritaria. “Ordine e sicurezza” è stata la frase più usata da Trump a conclusione della Convention repubblicana. Trump pensa di mettere al bando gli arrivi da quei Paesi a rischio terrorismo. Il suo appello è interclassista: vuole tagliare le tasse per le grandi imprese ma promette di cancellare i trattati di commercio internazionali che hanno pesato sulla classe lavoratrice. Il suo appello è indifferente ai valori: si rivolge indistintamente a omosessuali ed evangelici (citati entrambi nel discorso finale di Cleveland). A tutti, Trump chiede di credere soprattutto in una cosa: che lui sarà capace di “fix it”, di mettere a poso le cose.
Con questa fisionomia, il Trumpism è un pensiero che rimescola il panorama classico dei pensieri repubblicani; più reminiscente, forse, della miscela di risentimento, reazione dell’America bianca, rifiuto dei movimenti di liberazione che portò al potere Richard Nixon nel 1968 (e di cui più tardi si avvantaggerà anche Ronald Reagan). Uno degli elementi chiave del suo successo è appunto la rabbia contro il sistema. Da questo punto di vista, se Clinton e i democratici vogliono conservare e riformare prudentemente il sistema americano, Trump lo ritiene irriformabile e vuole liquidarlo. La sua è quindi una rivoluzione reazionaria, o autoritarismo rivoluzionario, sospettoso degli istituti tradizionali della democrazia liberale (Congresso, partiti) e sostenuto dall’idea dell’uomo forte che cambia le cose.
Questa dicotomia per molti versi nuovi nella politica democratica – conservatorismo democratico versus autoritarismo rivoluzionario – la si ritrova già da questi primi giorni di campagna nella mappa elettorale dei candidati. In uno Stato “in bilico” come la Pennsylvania, i democratici puntano a conquistare le città – Fialdelfia, Pittsburg, tradizionali serbatoi di voto democratico -, ma anche i loro sobborghi, dove vive una borghesia che di solito vota repubblicano. Trump e i suoi guardano invece al sud e all’ovest dello Stato, o a città come Scranton e Wilkes-Barre, dove si concentrano working-class e operai, i left behind delusi dai democratici che hanno ora la tentazione di votare contro partito e sistema.