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Terrorismo, la violenza come affermazione di sé per l’adolescente immigrato

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Nizza, Wurzburg, Monaco, Rouen, solo per citare i fatti più recenti, episodi di cui sono protagonisti immigrati di seconda o terza generazione con problematiche psichiche importanti. Si discute sul ruolo che possono avere le difficoltà di integrazione nella costruzione dei problemi e del comportamento deviante dell’immigrato, di quanto influisca il grado di accoglienza o rifiuto del paese ospitante.

Il rifiuto non è sempre presente nelle storie degli adolescenti immigrati e il disagio che vivono nei sentimenti di esclusione ed emarginazione a volte è il risultato di una percepita amplificazione di ciò che effettivamente accade, di un vissuto persecutorio di fronte ai comportamenti dei coetanei. A scuola ho conosciuto ragazzi, immigrati di seconda generazione, che vivono convinti che nessuno sia realmente interessato a loro, nonostante gli sforzi dei compagni di classe di coinvolgerli in attività comuni, e i tentativi degli insegnanti di scuoterli dal loro torpore e isolamento, di offrirsi come punti di riferimento o come interpreti con i loro stessi genitori con i quali spesso non condividono la lingua, per spiegare e sensibilizzarli al problema del figlio.

Gli insegnanti non fanno finta di niente, fanno quello che possono. Non dico che non ci sia qualcuno che si tira indietro, ma per la maggior parte non è così. La sospensione che vive l’adolescente immigrato gli impedisce di appartenere veramente sia alla cultura di origine che a quella di accoglienza e il senso di esclusione e non appartenenza che ne deriva è profondo. L’identità precaria crea uno stato di insicurezza e incertezza che rende difficile la costruzione di progetti personali e qualche volta anche solo avere un’idea di futuro.

La mancanza di prospettiva futura crea terreno fertile per progetti deliranti che offrano una qualche idea di realizzazione anche a costo della vita propria e altrui, vita che per altro sembra avere poco valore in queste condizioni, privilegiando l’idea di protagonismo. Il terrorismo non deve far altro poi che attribuirsi il fatto e approfittare di quanto accade per fortificarsi.

Si possono fare tante analisi degli ultimi eventi. Ognuno ritiene di maggiore rilievo una lettura dell’accaduto o un’altra: quella politica piuttosto che quella sociale, quella ideologica, religiosa o economica piuttosto che psicologica, come se questi fattori potessero essere separati. Evidentemente è la concomitanza di tutti a creare le condizioni per questi drammatici fatti. Nei casi più recenti il detonatore ultimo è sembrato quello psicologico: costruire un’immagine di sé di grande criminale come riscatto dei torti subiti – nel caso di Monaco-, incanalare la propria sofferenza, ormai divenuta follia, contro un ambiente esterno indifferenziato, nemico – come è accaduto a Nizza.

Tutto questo con il doppio (grottesco) “vantaggio” della delirante rivalsa, di cui non si riuscirà a vedere l’effetto, su un ambiente ritenuto ostile e rifiutante e dell’affermazione di un’identità frammentaria e inconsistente. Sarebbe bene che le problematiche attuali fossero affrontate in maniera integrata da politica, economia, sociologia, religione, psicologia e soprattutto che la politica e l’economia nel progettare soluzioni, considerassero il ruolo degli aspetti relazionali, in generale psicologici, nella costruzione dei grandi problemi.

È un discorso che spesso non piace, forse perché situazioni complicate potrebbero avere soluzioni troppo semplici?

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