La rivoluzione renziana sulla dirigenza pubblica tarda ad arrivare. Dal suo insediamento ad oggi, il premer non ha fatto altro che annunciare cambiamenti epocali che, in realtà, non si trovano nemmeno sulla carta. Ho seguito molto da vicino l’iter di Riforma e mi aspettavo un vero cambiamento della PA, che tutti chiedono da oltre 20 anni. Che le cose non vadano bene è evidente: valutazione, merito, trasparenza nell’attribuzione degli incarichi e maggiore autonomia proprio dalla politica, è la speranza di ogni buon dirigente pubblico. Il 10 agosto, durante il cdm, Renzi avrebbe potuto dimostrare che fa sul serio, senza cercare disperatamente consenso mediatico aggredendo una delle categorie più invise all’opinione pubblica, facendo così passare il decreto sulla dirigenza, cruciale per l’attuazione della Riforma Madia della pubblica amministrazione. E, invece, nonostante la delega scada a fine agosto durante il preconsiglio si è deciso di non discuterne. L’unica possibilità che il testo vada in aula è il Consiglio dei ministri del 25 agosto. Dopo si dovrà rifare tutto dall’inizio.

Ma la vera sorpresa è stata aprire i giornali e leggere la spiegazione che il governo ha fatto furbescamente filtrare per non perdere la faccia. I manager pubblici – quelli che lavorano male, vengono pagati troppo, non vogliono perdere la poltrona, speravano in una clausola di salvaguardia per scongiurare il rischio di entrare nel ruolo unico, hanno fatto resistenza e quindi l’esame del testo è slittato. Ma come, il principe della rottamazione si fa intimidire da un paio dirigenti pubblici di prima fascia resistenti al cambiamento? Suona proprio male e stento a crederci. Forse Renzi non riesce a dire che questa Riforma della dirigenza pubblica è stata pensata male? Una rivoluzione pensata solamente per la dirigenza delle funzioni centrali dello Stato, e poi calata d’impeto anche sulla dirigenza delle funzioni locali e territoriali (regioni, comuni e ruoli gestionali delle funzioni tecnico/amministrative della sanità che ha tutt’altre necessità e che rappresenta la stragrande maggioranza della dirigenza? Al 2014 i dirigenti delle funzioni locali sono 18.608 contro i 7.355 dirigenti delle Funzioni centrali (ministeri, ricerca, agenzie, enti pubblici non economici). Senza dimenticare che la Riforma, pensata appunto male – ma speriamo nella buona fede – altro non fa che precarizzare la dirigenza di ruolo assoggettandola alla politica.

E poi c’è il tema dei temi: il merito. Dalle bozze circolate fino ad oggi e dalle dichiarazioni registrate non sono riuscita a capire come verranno selezionati i migliori, perché chi ha ottenuto valutazioni positive potrebbe perdere il posto di lavoro; perché chi rimane senza incarico rischia il licenziamento? Come cambia – se cambia – il criterio di valutazione? Il problema, infatti, non è che tutti i dirigenti raggiungono gli obiettivi ma quando e come vengono dati questi obiettivi. Questo governo avrebbe dovuto vincere l’unica grande sfida contro l’alta burocrazia, contro quei pochi direttori generali – qualcuno chiamato dall’esterno e strapagato – che sono indissolubilmente legati alla politica. Sono questi gli inamovibili, immagino si conoscano anche i nomi, e non tutta la dirigenza pubblica che si è vista aggredita, maltrattata e ingiuriata dal governo e dall’opinione pubblica che poco conosce alcuni meccanismi.

Dunque, per riassumere, nel 1993 è scattata la Riforma Cassese che aveva dato ai dirigenti la contrattazione collettiva e l’autonomia di gestione, mentre i politici fissavano gli indirizzi. Alla fine degli anni 90 la legge Bassanini distingueva i dirigenti di prima e di seconda fascia e una prima forma di ruolo unico, utile ai dirigenti dei comuni che volevano concorrere al posto in un ministero. La Frattini nel 2002, abolì questo ruolo unico e si decise di ridurre anche la durata degli incarichi. Nel 2009, infine, la Brunetta fissò alcuni criteri per la valutazione di risultato e introdusse il meccanismo della performance. Adesso la riforma Madia vorrebbe di nuovo abolire la distinzione fra prima e seconda fascia – che negli enti locali non esiste, come dicevo prima. Dunque si rimette tutto in discussione senza una vera visione strategica, senza aver fissato un vero parametro per l’attribuzione degli incarichi, per la selezione, per la valutazione – soprattutto per la valutazione del dirigente.

Non è vero, infatti, che tutti prendono cento immeritatamente. È più giusto dire che gli obiettivi arrivano tardi, sono risibili a volte e non possono essere utili a fare un tipo di valutazione seria e oggettiva. Che colpa hanno i dirigenti di questo? Perché fare di tutta l’erba un fascio? Perché Renzi, il rottamatore, non riesce a colpire quei pochi che oggi hanno il potere e sono stati nominati dalla politica? Come segno di forza, appena insediato, il governo ha subito abolito i segretari comunali, che oggi confluiscono nel ruolo unico della dirigenza – sempre secondo un criterio incomprensibile e poco scientifico.

Dall’altra parte, però, nonostante gli scandali, gli esposti alla Corte dei Conti, i pareri negativi della Ragioneria generale dello Stato e le incompatibilità previste dalla legge un dg nominato dalla politica come lo psichiatra Luca Pani, direttore generale dell’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, rimane al proprio posto – con un contratto firmato con il ministero della Salute – pur avendo sforato il tetto retributivo. L’uomo giusto al posto gusto, insomma. Questa rottamazione, mettiamocelo bene in testa, è impossibile anche per Renzi. E vuoi vedere che al premier non conviene farsi nemici tutti questi dirigenti pubblici in vista del referendum costituzionale in cui, davvero, si gioca la faccia e anche la poltrona?

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