Gli ultimi arresti in Turchia sono stati eseguiti ieri: 120 manager di società considerate vicine al nemico numero uno di Erdogan, l’imam Fetullah Gulen. Ma dal 15 luglio, quando i militari tentarono di rovesciarono il presidente, sono state oltre 35mila le persone fermate e per 17mila di loro è stato confermato l’arresto. Per far spazio nelle carceri ai golpisti 38mila detenuti comuni saranno liberati e godranno della ”libertà vigilata” in base alla riforma introdotta dal governo di Ankara nel sistema giudiziario. Del resto come spiega l’ambasciatore turco in Italia, Aydin Adnan Sezgin, i seguaci di Gulen sono “paragonabili alla mafia o alla P2. Questi uomini compongono un’organizzazione estremamente diffusa, che si è infiltrata in tutto il Paese, per procedere su vie del tutto antidemocratiche al fine di distruggere e demolire l’ordine costituzionale, per stabilire la loro visione, che sarebbe poi un regime dittatoriale”.

L’annuncio del ministro della Difesa
Ad annunciare con una serie di tweet il decreto legislativo è stato il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag. La Turchia ha anche pubblicato due decreti in cui comunica la rimozione di più di 2mila ufficiali di polizia e centinaia di componenti dell’esercito e dell’autorità per le comunicazioni. I decreti, pubblicati nella Gazzetta ufficiale, includono anche la decisione secondo cui il presidente deciderà il capo delle forze armate.

A poco più di un mese all’appello, però, manca ancora colui che viene accusato di essere il regista dell’operazione, l’imam Gulen, in esilio negli Usa, che adesso Erdogan reclama e per cui ieri sono stati chiesti due ergastoli.  Nelle ultime quattro settimane, la scure del regime si è abbattuta su tutti i settori della società sospettati di agire all’ombra di Gulen. Oltre 35mila persone sono state interrogate, mentre oltre 80mila sono state sospese dai loro incarichi e 5mila rimosse: dalle forze armate ai giudici, dai giornalisti ai funzionari pubblici, dai docenti e agli impiegati, ha reso noto ieri il premier Binali Yildirim. Gran parte delle scuole e i media di Gulen sono stati chiusi e i suoi beni personali sequestrati.

L’ambasciatore turco in Italia: I golpisti come la mafia e la P2
I golpisti spiega il diplomatico “si sono inseriti in vari settori, ad esempio quello pubblico, per poi procedere nella polizia, la magistratura, l’università e le istituzioni educative, praticamente in quasi tutti i settori – ha spiegato il diplomatico -. Insomma, sono molto preparati. Per far capire la portata del pericolo, io l’ho paragonata alla loggia P2, l’ho paragonata alla Mafia, comunque questo non dà ancora l’idea di quanto essa sia pericolosa”.

Il tentato golpe il 15 luglio
La sera del 15 luglio i militari turchi chiudevano i ponti del Bosforo a Istanbul, mentre ad Ankara i carri armati pattugliavano le strade e gli F16 sorvolavano la città. Era l’inizio della notte più lunga della Turchia e del suo leader incontrastato, Erdogan, rimasto per diverse ore come prigioniero in volo, costretto ad arringare la popolazione contro i traditori da uno smartphone. Dopo ore di bombardamenti e combattimenti, i golpisti si arrendevano, ma con un bilancio pesantissimo: oltre 270 morti, inclusi civili. Scampato il pericolo Erdogan, più forte che mai, ha dato il via alle rappresaglie, il cui obiettivo numero è l’ex imam Gulen: ex sodale del presidente, e poi diventato suo grande nemico, è accusato di tramare da anni dal suo auto-esilio americano, grazie alla sua potente confraternita, Hizmet (Il servizio), ispirata ad un Islam più aperto all’esterno, rispetto all’ortodossia di Erdogan, e ad un impero economico e mediatico con ramificazioni in tutto il mondo.

Le tensioni con Ue e Usa
Tale ondata di repressione ha riacceso la tensione con l’Unione Europea, sopita dopo l’accordo di marzo sui migranti che aveva interrotto il maxi-flusso di profughi dalla rotta balcanica. Bruxelles e tutte le principali cancellerie europee, inclusa l’Italia, pur plaudendo al ripristino della democrazia in Turchia dopo il tentato golpe, hanno espresso allarme per la deriva autoritaria del Paese. Sono seguiti scambi durissimi, non ultimo quello in cui Ankara ha definito l’Austria capitale del razzismo radicale dopo che Vienna aveva suggerito di sospendere i colloqui di adesione della Turchia nell’Ue.

Un’adesione che rischia di saltare se Erdogan ripristinerà la pena di morte su cui però ieri il premier ha fatto marcia indietro: “Ci sono condanne peggiori della pena di morte per chi ha avuto un ruolo nel tentato golpe del 15 luglio in Turchia” aveva dichiarato il primo ministro turco Binali Yildirim. “Una persona non muore solo quando viene giustiziata – aveva detto ai deputati dell’Akp – Ci sono modi peggiori per morire che la (pena, ndr) di morte. Questo è un processo imparziale e giusto”.

Le stilettate non hanno risparmiato neanche l’Italia, in particolare la sua magistratura, che sta indagando sul figlio. Nella logica del muro contro muro sono finiti soprattutto gli Stati Uniti, accusati di proteggere Gulen, che risiede in Pennsylvania dal ’99. Sono state due la richieste di estradizione inviate a Washington, che però non hanno convinto gli americani. Ed è pronta anche una richiesta di arresto temporaneo per Gulen. Se ne riparlerà il 22 agosto in un incontro ad Ankara tra una delegazione del Dipartimento di Giustizia e gli omologhi turchi. Ed a un più alto livello, due giorni dopo, con la visita in Turchia del vicepresidente americano Joe Biden.

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