Damon Hininger, amministratore delegato di uno dei due più grandi gruppi carcerari privati degli Stati Uniti, due mesi fa sosteneva che chiunque sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, per il suo business farà poca differenza. “Penso che il prossimo presidente, chiunque sia, avrà da fare così tante cose nella sua amministrazione che il nostro settore sarà in fondo alla lista delle priorità”, era la previsione del numero uno di Corrections Corporation of America (Cca). In effetti lo sarà, ma in un senso ben diverso da quello immaginato da Hininger: il Dipartimento di Giustizia ha infatti annunciato l’intenzione di mettere fine all’utilizzo delle carceri private per i detenuti federali. Il viceprocuratore generale Sally Yates ha presentato un memo che chiede ai funzionari responsabili di non rinnovare i contratti con i gestori delle carceri private nel momento in cui scadranno, o venga “ridotto sostanzialmente l’ambito del contratto”.
Yates cita un rapporto molto severo del Department’s Office of Inspector General. Intanto Shane Bauer ha raccontato in un crudo reportage sulla rivista Mother Jones la sua esperienza di quattro mesi come guardia carceraria presso una struttura della Cca, rendendo consapevole anche l’opinione pubblica del fatto che le carceri private registrano un tasso più elevato di casi di violenza e di infrazione delle regole rispetto agli istituti gestiti dallo Stato e non portano risparmi sostanziali alle casse pubbliche.
L’ex candidato democratico Bernie Sanders, che già un anno fa aveva promosso una proposta di legge per superare questa esperienza ormai trentennale, nata sotto i governi repubblicani di Ronald Reagan e George Bush senior, ma definitivamente esplosa negli anni ’90 sotto la presidenza democratica di Bill Clinton, con l’avvento del Violent crime control and law enforcement act del 1994, il cosiddetto “crime bill”. Una dura stretta sui reati e le detenzioni (con l’introduzione della regola per cui chi si macchia di tre reati viene condannato a pene più dure), accompagnata da un budget di 30 miliardi di dollari, che ha visto più che raddoppiare la popolazione carceraria degli Stati Uniti, in particolare quella di origine afro-americana, favorendo accuse di incarcerazioni di massa e naturalmente il business degli istituti privati.
Dal 2013 a oggi la popolazione delle carceri private, invece, si è ridotta da 220mila persone a 195.000, grazie a provvedimenti come lo Smart on Crime Initiative che hanno rivisto la portata di alcuni reati minori. E adesso il governo ha deciso di eliminare dal dibattito elettorale un tema che imbarazza entrambi gli schieramenti, anche se Trump si dichiara a favore dell’attuale sistema e la Clinton contro. Inchieste della stampa Usa collegano donazioni per oltre 288mila dollari arrivate lo scorso anno da parte di società di lobbying ai repubblicani Marco Rubio e Jeb Bush e alla stessa a Hillary Clinton a Corrections Corporation of America e a The Geo Group, l’altro colosso del business della detenzione. Mentre poco più di un mese fa la commissione elettorale federale ha confermato un versamento di 45.000 dollari da parte di The Geo Group sui conti del Trump Victory Fund, veicolo elettorale del candidato repubblicano.
Cca e Geo sono quotate a Wall Street e dopo le dichiarazioni di Sally Yates hanno visto crollare i propri titoli del 40 per cento. Oltre il 90% delle azioni è detenuto da investitori istituzionali. Il primo è Vanguard Group, società di gestione da 3.600 miliardi di dollari. Blackrock, Bank of America, Bank of New York Mellon, State Street, Lazard, Wells Fargo sono solo alcuni dei circa 300 investitori istituzionali che hanno quote in una o entrambe le società, che lo scorso anno hanno chiuso entrambe con un fatturato di circa 1,8 miliardi registrando utili per centinaia di milioni.
Secondo il bilancio dello scorso anno, Corrections Corporation of America riceve in media per ogni detenuto circa 70 dollari al giorno, spendendone 47 di cui solo 12 dedicati alla cura del detenuto. Un margine operativo del 33% che ne fa un business evidentemente profittevole, che per mantenere tali ritorni ha dovuto negli anni progressivamente ridurre il numero degli operatori carcerari, sempre meno addestrati e con paghe ai minimi salariali per un lavoro che, secondo alcune ricerche, registra un tasso di disturbi post-traumatici da stress più alto di quello dei soldati che rientrano dall’Iraq o dall’Afghanistan. Corrections Corporation of America detiene oggi oltre 60 strutture, con una popolazione carceraria di 66.000 persone. The Geo Group ha invece una popolazione di 70.000 persone: insieme raccolgono il 75% della popolazione delle carceri private, che complessivamente rappresenta circa l’8% del totale degli incarcerati negli Usa.
Con circa 2,2 milioni di detenuti, la percentuale di incarcerazione degli Stati Uniti è seconda nel mondo solo alle Seychelles: gli Usa, che rappresentano circa il 4,5% della popolazione del pianeta, hanno oltre il 25% dei prigionieri, circa un milione di origine afro-americana. Negli ultimi anni la detenzione degli immigrati irregolari ha conosciuto un vero e proprio boom, con crescite a doppia cifra per le carceri private. Secondo l’ong Grassroots Leadership questo è avvenuto grazie a un emendamento del Congresso del 2010, che ha disposto che gli stanziamenti a favore dell’Immigration and Customs Enforcement, agenzia federale del Dipartimento della Sicurezza Interna degli Stati Uniti e responsabile del controllo della sicurezza delle frontiere e dell’immigrazione, debbano essere sufficienti a mantenere un livello di almeno 33.400 (poi portati a 34.000) “posti letto” per i detenuti. Tale norma ha creato una vera e propria quota di detenzione di immigrati, favorendo una politica di incarcerazione sempre più aggressiva. Nessun’altra agenzia di sicurezza opera attraverso una quota determinata dal Congresso.