L’Italia è una Repubblica fondata sui voucher. Il cui abuso gonfia i dati sull’occupazione, visto che chi viene retribuito con i buoni da 10 euro che sulla carta dovrebbero servire solo per pagare prestazioni di lavoro occasionali viene considerato a tutti gli effetti fuori dalle fila dei disoccupati. Tra gennaio e luglio di quest’anno, stando all’ultimo Osservatorio sul precariato dell’Inps pubblicato oggi, ne sono stati venduti 84,3 milioni, con un incremento del 36,2% sullo stesso periodo del 2015. Questo dopo che nei primi sette mesi del 2015 si era registrato un +73% sullo stesso periodo del 2014. Numeri che fanno vedere sotto un’altra luce i dati positivi sull’incremento dell’occupazione nel secondo trimestre diffusi dall’Istat il 12 settembre e salutati dal premier Matteo Renzi come prova del fatto che “il Jobs Act funziona”. Intanto il governo prende tempo sul varo definitivo del decreto che dovrebbe limitare l’abuso dei buoni.
Il rapporto tra boom dei voucher e miglioramento dei dati Istat sul lavoro è diretto: chi viene pagato con i buoni – la “nuova frontiera del precariato” secondo il presidente Inps Tito Boeri – viene infatti contato dall’istituto di statistica tra gli occupati. Che comprendono il lavoro occasionale e accessorio così come quello part time, anch’esso in aumento. In generale, per convenzione standardizzata dall’Organizzazione internazionale del lavoro e adottata dagli istituti statistici di tutti i paesi del mondo, sono considerate occupate le persone che, durante le interviste dei ricercatori Istat, rispondono di aver “svolto almeno un’ora di lavoro retribuita” nella settimana a cui si riferisce l’indagine.
Il boom dei voucher è iniziato dopo la riforma Fornero del 2012, che ha esteso la possibilità di usare i buoni nati per pagare gli stagionali impiegati nella vendemmia a commercio, servizi (camerieri), giardinaggio e pulizia, lavori domestici. Poi il Jobs act ne ha incentivato il ricorso portando da 5mila a 7mila euro il limite di reddito percepibile da un lavoratore attraverso i voucher. I percettori sono così passati dai 24mila del 2008 agli 1,4 milioni del 2015, e il 37% non ha altri redditi.
La scelta del governo ha allargato le maglie promuovendo l’uso di uno strumento di per sé a rischio abuso: i sindacati hanno denunciato che molti datori di lavoro attivano il buono solo quando scattano i controlli, in modo che il lavoratore risulti in regola. Così, invece da far emergere il lavoro nero, i voucher finiscono per mascherarlo. Guasti a cui dovrebbe rimediare un decreto correttivo atteso dalla scorsa primavera, varato in via preliminare il 10 giugno e di cui è ancora attesa l’approvazione definitiva. Il testo uscito dal consiglio dei ministri di giugno impone la tracciabilità: il committente dovrà comunicare preventivamente il nominativo e il codice fiscale del lavoratore, la data e il luogo in cui svolgerà la prestazione lavorativa e la sua durata. Una soluzione che Cgil, Cisl e Uil ritengono comunque insufficiente: le sigle confederali chiedono che interi settori, a partire dall’edilizia, siano esclusi dalla possibilità di pagare con voucher, e che sia fissato un tetto massimo di ore che ogni azienda non può superare nella retribuzione con buoni lavoro.
Quanto all’andamento dei flussi di contratti stabili, nei primi sette mesi secondo l’istituto di previdenza sono stati stipulati 972.946 contratti a tempo indeterminato (comprese se le trasformazioni di contratti a termine e di apprendistato) a fronte di 896.622 cessazioni di contratti stabili, con un saldo positivo per 76.324 unità. Il dato è peggiore dell’83,5% rispetto alle 465.143 unità dello stesso periodo del 2015 – quando lo sgravio contributivo per i contratti stabili era del 100% contro il 40% attuale – ma anche del dato 2014, quando gli incentivi non c’erano. All’epoca il saldo sui rapporti a tempo indeterminato era positivo per 129.163 unità. A fronte di questi risultati non sorprende che il governo, stando a quanto detto dal sottosegretario Tommaso Nannicini, sia orientato a non rinnovare, nella prossima legge di Bilancio, l’esonero contributivo, per quanto ridotto. Potrebbe restare in vigore solo per i giovani o solo per le assunzioni nel Sud Italia.