E Brexit fu. Nonostante il sentimento generale fino a poche ore prima dei risultati fosse tutto sommato avverso a questo scenario, è ormai noto a tutti che il popolo britannico si è democraticamente espresso, a giugno scorso, a favore dell’uscita dall’Unione Europea. È ancora troppo presto per trarre delle conclusioni a bocce ferme, ma alcune considerazioni si impongono. A distanza di pochissimo dai risultati del referendum, la Scozia (che, vale la pena ricordarlo, ha votato per il 62% per il “remain” e dove ogni singola circoscrizione si è espressa a favore dell’Ue, con un’affluenza del 67,2%, più bassa rispetto a Inghilterra e Galles) aveva prontamente espresso, tramite le parole del primo ministro Nicola Sturgeon, la volontà di proporre ancora una volta un referendum per l’indipendenza dal Regno Unito. Alternativamente, la stessa Sturgeon aveva paventato, seppur in termini non molto espliciti, l’idea che il Parlamento scozzese ponesse il veto sull’uscita del Regno Unito dall’Ue. Insomma, per quanto la questione vada analizzata in profondità dal punto di vista legale, la possibilità di un’uscita della Scozia dal Regno Unito si ripresenta più verosimile di due anni fa.

Allo stesso tempo, seppur in maniera per ora meno concreta, anche al di là del Canale del Nord si sono sollevati toni separatisti, dal momento che l’Irlanda del Nord ha votato in favore dell’Ue (55,8%, con un’affluenza del 62,7% – quindi una posizione meno decisa rispetto a quella della Scozia). Rappresentanti di Sinn Féin (storico partito indipendentista nordirlandese) hanno colto la palla al balzo per riprendere la discussione sulla riannessione dell’Irlanda del Nord alla Repubblica d’Irlanda tramite referendum. Di conseguenza, anche in Irlanda del Nord si concretizzano scenari separatisti, pur trattandosi di possibilità molto più ristrette, dal momento che il popolo nordirlandese ha da sempre presentato meno velleità indipendentiste della loro controparte scozzese (per non parlare della scarsa volontà di riunirsi alla Repubblica d’Irlanda).

Insomma, di considerazioni di natura socio-politica, autorevoli e non, se ne sono fatte e se ne faranno ancora molte durante i prossimi anni, fino all’effettiva uscita del Regno Unito dall’Ue e oltre. Tuttavia, allontanandoci un po’ dai grandi discorsi politici, ci sono numerosi altri aspetti che meritano considerazioni a seguito della Brexit. Tra le altre cose, vale la pena domandarsi quale sarà l’impatto linguistico della Brexit. A questo punto ci si può domandare quali saranno le conseguenze sul ruolo dell’inglese nel contesto dell’Ue e in generale sul multilinguismo che da sempre caratterizza l’Ue.

Cominciamo col considerare il primo aspetto. Originariamente composta da sei membri in cui si parlavano “appena” quattro lingue (francese, italiano, olandese e tedesco), l’Unione europea riconosce ad oggi come lingue ufficiali tutte e 24 le lingue parlate nei suoi 28 membri (compreso il Regno Unito). Qual è la posizione dell’inglese in questo contesto? Diversamente da quello che si potrebbe credere, l’inglese è parlato come lingua materna da circa il 13% della popolazione dell’Ue (essenzialmente britannici e irlandesi, pur essendo lingua ufficiale anche a Malta), dopo il tedesco (18%) e al secondo posto a pari merito con l’italiano (dati dello studio Special Eurobarometer 386 – Europeans and their languages).

Ovviamente, con l’uscita del paese anglofono più popoloso, lo scenario cambierebbe in maniera sostanziale, in quanto l’inglese sarebbe la prima lingua di appena l’1% della popolazione dell’Ue. La situazione cambia radicalmente se invece si osserva il numero di locutori dell’inglese come lingua straniera, pari al 38%, seguito da tedesco, francese (entrambi al 14%) e italiano (3%). In altre parole, il 51% dei cittadini dell’Ue sarebbe in grado di comprendere ed esprimersi in inglese. Tuttavia, il condizionale è d’obbligo, in quanto appena il 21% dei parlanti inglese dichiara di avere un livello “molto buono”, dato probabilmente molto ottimista. Il medesimo studio riporta che questo 21% è composto per lo più da individui giovani, con un livello di educazione superiore alla media, utilizzatori frequenti della rete e che vivono in grandi centri urbani.

A lungo si è parlato della possibilità di abbandonare il multilinguismo e il suo imponente apparato di traduzione e interpretazione in favore di un unilinguismo anglofono (e anglofilo). Molti hanno criticato quest’idea sulla base del fatto che una fetta della popolazione sarebbe ingiustamente avvantaggiata, a cui sarebbe permesso risparmiare sugli investimenti nella formazione linguistica. Non parliamo poi dell’asimmetria nella facilità di utilizzo, della perdita di autorità di altre lingue, e altri aspetti meno quantificabili in termini monetari. Oltretutto, le ripercussioni legali sarebbero significative, in quanto l’applicazione del principio fondamentale per cui ignorantia legis non excusat (reso spesso in italiano con l’espressione “la legge non ammette ignoranza”) vacillerebbe davanti a testi di legge redatti in lingue che non tutti conoscono. E che dire del fatto che il motto dell’Ue è “Unita nella diversità”, con chiaro riferimento al rispetto per le differenze culturali e linguistiche?

Si potrebbe controbattere che, con l’uscita del Regno Unito dall’Ue, la posizione dell’inglese diventerebbe decisamente più neutrale, attenuando quindi le asimmetrie che si verrebbero a creare. Tuttavia, come abbiamo visto, molti in Europa non possiedono un livello di inglese tale da permettere una partecipazione attiva o quantomeno passiva alla vita comunitaria. Inoltre, si andrebbe a svantaggiare una parte della popolazione tendenzialmente meno abbiente, allargando ulteriormente la forbice sociale. Basti pensare che, in Italia, la probabilità che un individuo parli inglese è il doppio nella fascia di stipendio del 10% più alto rispetto a quelli del 10% più basso (dati riportati da Horizon, la rivista di ricerca e innovazione dell’UE, nell’articolo Multilingualism is vital for an inclusive EU – researchers). Di conseguenza, la protezione del multilinguismo sembra rappresentare una priorità per un’Unione democratica e inclusiva di tutti i suoi cittadini.

Dunque in che direzione dovrebbe avanzare un’Unione Europea tanto multilingue? Ritengo che oggi più che mai il multilinguismo vada valorizzato, in linea con uno spirito europeo che solleva le sue frontiere interne ed esterne per permettere la scambio tra popoli, scambio che passa certamente anche per la lingua. Oltretutto, un’Ue che intende farsi garante di pari diritti (e doveri) tra i suoi cittadini non può abbracciare l’idea di un monolinguismo che ingiustamente avvantaggia, come visto, alcune fasce privilegiate della popolazione. Infine, a prescindere dalle conseguenze politiche ed economiche della Brexit, si aprono scenari di dibattito affascinanti anche per tutti coloro che si interessano di questioni linguistiche. Non bisogna dimenticare, inoltre, che le questioni linguistiche non sono mai strettamente linguistiche. Si tratta anche, e non solo, di questioni sociali (inclusione o esclusione? libertà di movimento?), lavorative (traduzione o insegnamento delle lingue?) e, ovviamente, culturali.

di Marco Civico, ricercatore e dottorando all’università di Ginevra, esperto di questioni legate alle lingue e al multilinguismo in ottica socio-economica

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