Le storie dei giornalisti minacciati e le biografie dei signori dell’informazione. I giornali e i gruppi editoriali legati alle associazioni criminali, e i precari, i freelance, quelli che se domani scioperassero tutti insieme, costringerebbero metà dei quotidiani italiani a non uscire in edicola. Da una parte gli esempi luminosi, quelli degli ultimi cronisti dello Stivale, e dall’altra i volti neri dei padroni del vapore, trait d’union tra stampa e potere. In due parole: i Comprati e Venduti, che è poi il titolo dell’ultimo libro di Claudio Fava, uscito per i tipi di Add editore.
Il saggio prende spunto dalla relazione su Mafia e Informazione approvata nell’estate del 2015 dalla commissione parlamentare Antimafia e curata proprio da Fava, che di San Macuto è vicepresidente. “La relazione nel mio libro è un pretesto, un modo da cui partire per raccontare cos’è questo mestiere, come lo facciamo e come lo facevamo, come mai adesso il giornalismo poggia sulle spalle degli ultimi, dei precari, che sono sempre i migliori”, dice il parlamentare di Sinistra Italiana. Le due facce del giornalismo, dunque, di un giornalismo che è inevitabilmente figlio degli anni 70: da una parte gli otto cronisti assassinati da Cosa nostra in Sicilia, dall’altra l’editore del Giornale di Sicilia, Federico Ardizzone, intimo frequentatore del capo della Cupola mafiosa, Michele Greco, detto il Papa.
“Io – dice Fava – credo che ben più di qualcosa sia rimasto dal sacrificio di Mario Francese, di Peppino Impastato, di Mauro de Mauro, credo che quegli anni non siano stati sprecati e anzi abbiano lasciato in dote semi positivi che continuano ad attecchire ancora oggi”. Qualche esempio? “Brescello, dove alcuni ragazzi di un’associazione universitaria inchiodano il sindaco alle sue responsabilità, raccontando come mai la ‘ndrangheta è entrata in quel comune e in che modo, soltanto facendo le domande giuste e sollevando il caso a livello nazionale. O Sedriano, diventato scandalo nazionale dopo gli articoli di una ragazza poco più che ventenne (Ester Castano, ndr) che poi magari per pagarsi il lusso di fare la giornalista lavorava in una tavola calda”, continua sempre Fava, che nel suo libro non sottovaluta come i casi virtuosi da lui elencati rischiano spesso di diventare un alibi per l’intera categoria giornalistica. “Spesso – dice il parlamentare – anzi praticamente sempre a chi viene minacciato in provincia arrivano attestati di stima, di solidarietà: eppure non è la minaccia a lasciare il segno più doloroso. Ad essere più pericolosa è ormai la stessa condizione di questo mestiere, la sua precarietà, la necessità di arrangiarsi a scrivere di mafie e a rischiare la pelle come se fosse un capriccio”.
E d’altra parte non è un caso se oggi il mondo della stampa è così malconcio, diviso da una aristocratica visione che affetta i giornalisti in due macro famiglie: chi è dentro una redazione assunto con un contratto e chi invece è fuori, pagato a cottimo. “Se noi andiamo a vedere le storie personali dei protagonisti oscuri che magari gestivano potentissimi imperi di carta già 40 anni fa, scopriamo che sono ancora lì. È il caso di Mario Ciancio Sanfilippo, il patron de La Sicilia di Catania: è diventato una questione morale per questo Paese solo dopo l’inchiesta (e il processo) a suo carico per mafia, ma per 30 anni ha vissuto solo nell’impunità, come parte necessaria di un sistema di potere in cui il filtro la copertura, il silenzio dell’informazione serve a garantire la tenuta di certe imprese, di certi privilegi”.
Una situazione che secondo il vicepresidente della commissione Antimafia non è poi così cambiata. “Oggi vedo che paralleli ai segni di chi questo mestiere lo vuole fare con dignità, c’è un’intera dimensione formale, pigra, sorda e disattenta, incapace di andare oltre i comunicati. A Brescello i giornali nazionali si sono occupati di ‘ndrangheta quando è intervenuto il prefetto, non prima, quando solo quei ragazzi di un’associazione universitaria avevano già inchiodato il sindaco alle sue responsabilità”, spiega l’esponente di Sinistra Italiana, che apre il suo saggio citando l’assassinio di suo padre, Pippo Fava, direttore de I Siciliani, ammazzato da Cosa nostra il 5 gennaio del 1984. “Adesso che di anni ne ho di più di quanti ne aveva mio padre quando fu ucciso, non sono più soltanto un figlio, ma una parte di quella storia, mi sento in condizione di uscire da un certo ruolo e sentire un po’ il peso e la fatica di tutto il tempo trascorso. Ecco adesso che questo tempo si è compiuto, posso tornare a ragionare su certe storie”.