“Se uno studente o uno stagista mi avesse posto un quesito in quei termini? Lo avrei bocciato”. Parola di Antonio Noto, presidente di Ipr Marketing e docente di “tecniche del questionario” all’università di Palermo. La guerra di nervi intorno al referendum passa dal quesito sul quesito: quello proposto agli italiani per riformare la Costituzione è neutrale oppure sbilanciato a favore del “sì”? La questione è divampata dopo che M5S e Sinistra Italiana l’hanno rimessa al tribunale amministrativo (Tar) che entro il 17 ottobre, salvo sorprese, potrà esprimersi sul punto. Si discetta da giorni sulla cornice giuridica, che fonda il ricorso sull’interpretazione autentica della legge (art. 16 dl 352/1970) laddove indica per la revisione della Carta che il quesito ricalchi esattamente gli articoli modificati. Ma il punto non è tanto o solo giuridico perché la forma in queste cose è sostanza. E a sostenerlo sono proprio coloro che tutti i giorni, per mestiere, masticano pane e sondaggi.
Quella dicitura sulla scheda, sostengono gli esperti d’opinione, può sortire un effetto sui tanti indecisi e in una percentuale che oscilla tra il 5 e il 20%. “Che può fare effettivamente la differenza”, sostiene Nicola Piepoli “perché uno o due milioni di voti possono decidere l’esito del referendum”. E’ stato il primo a lanciare la pietra nello stagno, dalle colonne di QN. Per esemplificare il rischio cita un precedente in letteratura, quando nel 1941 il presidente americano Franklin Delano Roosevelt commissionò un test all’istituto statistico Gallup su tre diversi quesiti, formulati in tre modi diversi, per chiedere ai cittadini Usa se fossero favorevoli o no a entrare in guerra. Nel primo caso, la maggioranza avrebbe votato a favore della guerra, col secondo quesito sarebbero prevalsi gli indecisi, col terzo avrebbe vinto il No al conflitto. “È chiara, quindi, l’importanza della domanda”. Consolazione: “Così com’è oggi, è scritta bene, in modo chiaro, non in burocratese come accadeva in passato”.
Antonio Noto la pensa allo stesso modo e anzi aggiunge il carico. “Siamo passati da formulazioni anodine e incomprensibili alle semplificazioni eccessive. Perché il quesito è figlio della nostra scarsa cultura referendaria e di due eccessi. I quesiti abrogativi erano la summa del burocratese. Per dire “sì” dovevi votare “no”, e il quesito era un rimando al comma delle legge che cambia il comma della legge. Roba incomprensibile ai più ma su cui si chiedeva il voto popolare. Ora siamo passati all’eccesso opposto di una formulazione semplificata che rischia di influenzare l’esito del referendum. Perché non c’è dubbio alcuno sia così: con quella formulazione perché mai uno dovrebbe dire di “no”? Leggendo acriticamente quel tipo di dicitura è invece chiaro perché uno dovrebbe votare sì”.
Non siamo i soli a porci il problema, per fortuna. Ma a quanto pare gli unici che tirano dritto per poi andare dal giudice. “Purtroppo è così e l’esempio più recente ce lo offre l’Inghilterra. In occasione di Brexit il quesito fu riformulato proprio per evitare il rischio che uno “yes” o un “not” potessero influenzare il risultato”. E allora si decise che la domanda dovesse essere “leave” o “remain”. E alla fine il risultato sorprese tutti, a dimostrazione che il quesito posto formulato non spostava effettivamente nulla. “E dunque era corretto cambiarlo”. Mentre da noi? “Da noi non si ascoltano i professionisti del settore, non c’è un organismo che possa dare contributi scientifici, pur avendo l’Italia una consolidata esperienza e tanti esperti cui la politica, per altri versi, si rivolge. Basti dire che non servono neppure tre parole per influenzare un voto, ne bastano anche due: se prendiamo 10 persone per strada e gli chiediamo di dire “sì” o “no” sei mediamente diranno “sì”, perché c’è un effetto psicologico trascinatore che è stato ben codificato dagli esperti di sondaggi”. Figurarsi con 57 parole, alcune riferite non al contenuto della riforma agli effetti sperati, come la riduzione dei costi della politica.
Quanto vale il trucco nel quesito? “Detto che confido che la maggior parte degli elettori non si farà influenzare da come è posta la domanda e da messaggi subliminali, direi che un quesito non neutro può avere sicuramente un’effetto importante sul 5% degli elettori. Perché proprio il cinque? Perché l’esperienza sui sondaggi politico-elettorali ci ha dimostrato che questa è la consistenza dell’elettorato che decide cosa votare solo all’ultimo, una volta che è entrato in cabina, sulla base di quel che vede e legge: i simboli, i nomi. E’ chiaro che la formulazione stessa di quesiti così posti ha il suo peso: perché uno dovrebbe dire di “no”? Leggendo acriticamente quel tipo di dicitura è invece chiaro perché uno dovrebbe votare sì”.